I
Garagedays sono austriaci e in “Passion of dirt”, secondo albo che arriva dopo il debutto del 2011 “Dark and cold”, propongono una grintosa esposizione artistica fatta essenzialmente di
metallo classico e
thrashoso, pesantemente ispirato da Tank, Motorhead, Metallica, Accept e Testament, ma piuttosto schietto e godibile.
Realizzato con il contributo di Ralf Scheepers (co-produttore dell’opera e ospite vocale in tre tracce) e Andy LaRocque (in sede di mixaggio e masterizzazione), il disco si muove con una certa disinvoltura tra scariche abrasive e momenti più meditati, rivelando immediatamente le notevoli qualità di Rene Auer, un solista sicuramente preparato e sufficientemente eclettico da disimpegnarsi con una certa sicurezza in entrambe le circostanze espressive.
Anche la chitarra ritmica di Marco Kern appare alquanto solida e precisa, mentre per quanto riguarda la sua voce diciamo che piacerà soprattutto a chi nella fonazione modulata non cerca particolari doti di estensione e si “accontenta” di una forma di granulosa e viscerale emissione canora (qualcosa tra un Hetfield con un principio di laringite, Mille Petrozza e il mitico Lemmy), per un risultato complessivo comunque piuttosto adeguato ed efficace, in grado di non essere completamente annichilito nemmeno dalla presenza di Scheepers.
Alla fine, infatti, pur gradevoli, i brani a cui prende parte in varia misura l’ugola del celebre produttore, ovvero la poderosa
title-track del
Cd, “The unknown feeling”, una
ballatona dagli accenti melodrammatici, e “Scars of life”, con il suo pulsante e incendiario crescendo emotivo, non risultano i
best in class della situazione, che per quanto mi riguarda si chiamano “Never give up”, una scarica di pura adrenalina
punkeggiante, “Streets”, un (semi)strumentale ricco di
pathos ed
epos e “Road to madness”, capace di avvincenti progressioni armoniche arricchite da barlumi di
doom e di
NWOBHM.
“It rules”, “Razorblade” (Motorhead
meets Metallica) e “Bleeding days” sono altre discrete “mazzate” sui denti, e assieme alla nuovamente enfatica “Inject”, finiscono per consegnare al pubblico dei
metal-heads quarantatre minuti di musica catartica e intensa, non certo “rivoluzionaria” o "destabilizzante", e tuttavia onesta e credibile.
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