Ristampe, riesumazioni, riscoperte … oltre che essere diventate una consuetudine dei nostri “nostalgici” tempi, per
musicofili e collezionisti sono da sempre la rappresentazione di un sentimento dicotomico tra “croce e delizia”, in sospensione fra benemerite operazioni di recupero e comodi espedienti messi in atto per ovviare a pavidità discografiche e a carenze di nuovi stimoli creativi.
Su tutto, poi, oggi arrivano a pesare come “macigni” (virtuali) i vari servizi di condivisione via
web, in grado di annientare, con la loro immediata e munifica “disponibilità”, il senso di “meraviglia” e di affannosa “ricerca” con cui la mia generazione affrontava il nome di “culto” e le opere musicali oscure e sottovalutate.
E allora, com’è possibile che un
remake abbia ancora un significato importante, anche in un mondo dove tutto è “a portata di mano”? Beh, diciamo che il “valore artistico” e la “brama di possesso” sono, a mio parere, due fattori tuttora determinanti, tanto da rendere un oggetto come questo “Living mask”, pietra angolare dell’
horror-doom-wave italica, una “reliquia” che deve costituire un’irrinunciabile presenza “fisica” all’interno di ogni caliginosa e sagace discoteca che possa definirsi tale.
Se ritenete che il vostro prezioso archivio sonoro meriti i suddetti appellativi e vi eravate persi la versione del lavoro in questione targata Andromeda Relix, per distrazione o eccessiva flemma (è stato pubblicato nel 2000 in soli 500 esemplari, velocemente esauriti), ora potete ovviare all’imperdonabile mancanza grazie alla “solita” Jolly Roger Records, ormai un’autentica garanzia di competenza e passione in fatto di metallo tricolore.
Il secondo albo dei veronesi
Black Hole, rimasto inedito per oltre un decennio, ci consegna un gruppo abbastanza diverso da quello che nel 1985 aveva realizzato il capolavoro “Land of mystery” (che già abbiamo trattato su queste colonne e dovreste aver “consumato” …), sempre più dominato dalla personalità carismatica e irrequieta di Roberto "Robert Measles" Morbioli, suggestionata tanto dai climi sofferti e foschi del
doom ancestrale quanto dalle sonorità spettrali e algide della
dark-wave.
Aggiungete un approccio alla materia
progressivo (a tratti, addirittura quasi
jazzistico), vivide suggestioni letterarie (Poe, Lovercraft … l’immagine di copertina è tratta da "Il vetro di Leng", un dipinto del pittore Danilo Capua ispirato proprio al maestro di Providence) e cinematografiche (qualcosa tra Corman, Fulci e Carpenter) e otterrete un impatto sensoriale potente e morboso, in cui le angosce di Bauhaus e Joy Division si fondono con le ossessioni di Black Sabbath, High Tide, Paul Chain e Black Widow (ascoltare l’
opener “Return of gothic spirit” per referenze immediate), mentre stranianti grumi di Magma e Van Der Graaf Generator s’insinuano subdolamente nel tessuto connettivo della vostra corteccia cerebrale.
In tale contesto, “The dark theatre” è forse il momento più istantaneamente “impressionante” (in particolare per gli estimatori di “roba” alla Saint Vitus …) del disco, ma vi esorto ad approfondire con attenzione soprattutto il resto del dissonante e febbricitante programma (con una menzione speciale per “Black hole” …), l’espressione, sebbene sicuramente ancora “grezza” e “immatura” (anche sotto il profilo squisitamente tecnico), di una visione artistica piuttosto audace ed enigmatica, capace di tramutarsi in un’esperienza d’ascolto ossianica, conturbante ed esoterica anche a distanza di venticinque anni dal suo originale concepimento.
Qualcosa di molto simile ad un suggestivo viaggio in un luogo
scuro, polveroso e perso, insomma, che vi consiglio di non rimandare ulteriormente …