Arrivavano dalle
strade di Los Angeles, fucina apparentemente inesauribile di
rockers viziosi e sfrenati, e anche se l’era dorata dell’
edonismo reaganiano stava per esaurirsi (implodendo su se stessa a causa di quegli eccessi di manierismo e di “consumismo” che avrebbero condotto all’ondata
purificatrice del
grunge), i
Sister Whiskey ebbero la loro “grande occasione”, e grazie all’intercessione e alla produzione di Dana Strum, debuttarono nel 1993 su Warner con l’ottimo “Liquor & poker”, un titolo da consigliare a chi ama il
rock n’ roll infuso di
blues di Aerosmith, Junkyard, Cry Of Love e Tattoo Rodeo.
Un contratto “capestro” (il bassista di Vinnie Vincent Invasion e Slaughter, a quanto sembra, fu particolarmente e subdolamente esoso con i suoi “protetti”) e gli ineluttabili eventi spensero il “sogno” di questi cinque ragazzi californiani, ma se volete (ri)scoprire un gruppo di notevole valore, oltre che recuperare il succitato esordio su
major, oggi avete la possibilità di valutare i Sister Whiskey nella loro essenza più rude e istintiva, fotografata nel
demo omonimo del 1991, così importante per il loro pur effimero successo.
Ristampato su
Cd (in configurazione “Vinyl replica”) dall’italianissima L.A. Riot Survivor Records, il nastro dimostrativo restituisce tutta l’esuberanza di una formazione capace di scrivere e interpretare vischiosi spaccati di
street-metal, divertenti, malinconici, sfrontati e vibranti, supportati da un’adeguata tecnica individuale e dalla giusta attitudine.
Se siete estimatori del settore e apprezzate un approccio non distante pure da certi Poison, dai Guns n’ Roses e dai primi Bon Jovi, non vi sarà difficile individuare nella spinta emozionale di “Cold shot of water”, nella ruffianeria di “Memphis roads”, nelle scansioni sincopate (vagamente Crue-
iane) di “Southern mistreater” e nel
feeling focoso e
confederato di “Wine and roses ain’t the cure”, le stimmate di una
band sopra la media, dotata di un potenziale artistico e “commerciale” che attendeva solo di essere colto, indirizzato e “sfruttato” (e qualcuno, come anticipato, deve aver preso fin troppo “alla lettera” questa indicazione!).
A completare il quadro espositivo, arrivano tre
bonus dal vivo, registrate nel 1992 nientemeno che al Troubadour, al Gazzari’s e al Roxy (in pratica i santuari del genere …) e in grado, nonostante una resa sonora fatalmente “sporca”, di dimostrare l’efficacia del gruppo anche sulle assi di un palco, attraverso brani scanzonati e immediati, dai quali emerge con prepotenza la trascinante
catchiness di “Sweet blue jean sister”.
Tra le tante operazioni di “riesumazione” musicale, più o meno opportune, tipiche del
business discografico contemporaneo, un “oggettino” passionale e sincero come “Sister whiskey” merita attenzione, e questo indipendentemente dal fatto che tale considerazione possa contribuire alla
reunion dei suoi autori, un'altra “consuetudine” dei nostri tempi non sempre pienamente appropriata e produttiva.
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