Vogliamo essere onesti sino in fondo, a costo di sfiorare la brutalità?
Ecco qui: sette metallari italici su dieci della scena doom se ne impipano bellamente. Se poi aggiungiamo la parolina “funeral”, allora possiamo pure azzardare un otto su dieci.
Mi piace sperare che la palma del peggiore se la aggiudichi ancora la funesta branca *core, ma comunque sia non c’è da stare allegri (anche considerando le sonorità non proprio solari del genere in esame).
Partendo da simili, plumbei presupposti, come fare a instillarvi un minimo di curiosità verso il nuovo lavoro degli
Ophis, fieri paladini della musica del destino?
Compito arduo anzichenò, posto che un’analisi semplicistica di
Abhorrence in Opulence condurrebbe ad arguire di essersi imbattuti in una pedissequa riproposizione di canoni stilistici sin troppo rigidi. In fondo, la lunghezza dei brani (cinque per oltre un’ora di musica) è quella, i riferimenti stilistici (
Evoken in primis, ma anche
Skepticism e
Ahab) anche, di riffoni lentissimi e sepolcrali ripetuti allo sfinimento ne potrete trovare finché volete, così come non mancano certo il classico vocione da catacomba e le atmosfere rarefatte e soffocanti…
Quindi cosa rende il terzo full length del quartetto di Amburgo un gioiellino di nera afflizione?
Presto detto: la maestria e la naturalezza con cui i Nostri plasmano una materia solo apparentemente immutabile, riuscendo così a valorizzare ogni sfumatura del loro sound e a rendere il pachidermico fluire della tracklist -udite udite- addirittura vario e stimolante.
Non mi credete?
Andate ad ascoltarvi la bordata death a metà brano seguita dalla angosciante litania dell’opener
Disquisition of the Burning, o lo straziante crescendo emotivo di
Among the Falling Stones, suggellato da un delicato arrangiamento di violini capace di strappare il cuore.
Poi lasciatevi condurre nei meandri più bui della tristezza dalle melodie di
A Waltz Perverse (la mia traccia favorita dell’intero lavoro), e sobbalzate udendo i cambi d’umore e i riff spezzati di
Somnolent Despondency.
Infine godete del finale da antologia di
Resurrectum, violento e solenne al tempo stesso…
…e mi saprete dire.
Come concludere dunque (questa è la recensione delle domande a inizio paragrafo, non so se ve ne siate accorti)?
Con una punta di amarezza, ahimè:
Abhorrence in Opulence è sì un’opera magistrale, che supera in qualità il precedente
Withered Shades e arriva a lambire i picchi di ispirazione -e di disperazione- raggiunti dal debut
Stream of Misery; al tempo stesso, difficilmente permetterà agli
Ophis di balzare oltre la staccionata che sino ad oggi li ha confinati nell’underground. Temo ci si dovrà accontentare delle lodi tessute da noi scribacchini metallici e della fedeltà di una sparuta cricca di cult followers.
Spero ardentemente di sbagliarmi.
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