Per molti
prog-fans l’immagine dei
Marillion è indissolubilmente legata a quella di Mr. Derek William Dick, in arte Fish.
L’atteggiamento può sembrare “puerile”, anche perché stiamo parlando di una formazione che nella configurazione
Mark II ha alle spalle ormai più di venticinque anni di onorata carriera, in cui è peraltro riuscita a rendere maggiormente peculiare e distintiva la propria proposta musicale, eppure certe “resistenze”, talvolta dettate da pregiudizi privi di circostanziati riscontri oggettivi, sono difficili da sconfiggere.
Ebbene, lo confesso … ero uno di questi
imbelli rockofili … uno di quelli che ha seguito troppo “distrattamente” il percorso musicale della band da quando Steve Hogarth, con la sua pastosa laringe (dagli accenti, a tratti, vagamente Wetton-
iani), ha saldamente conquistato la gestione microfonica della coalizione britannica, uno di quei “conservatori” che associava istintivamente il nome del gruppo a titoli come “Script for a jester’s tears”, “Fugazi”, “Misplaced childhood” o “Clutching at straws”.
Un errore … perché se è vero che quelli sono e rimangono capolavori del
rock progressivo ottantiano (
figli prediletti degli inarrivabili Genesis) e che i Marillion dopo quell’aurea quaterna hanno attraversato alcuni momenti di evidente
défaillance creativa, è altrettanto vero che “Seasons end”, “Brave”, “Marbles” e l’ultimo “Sounds that can’t be made” rappresentano un’appassionante evoluzione “aggiornata” dei suoni che li hanno resi celebri, magari meno “appariscente” e tuttavia assai suggestiva.
Nonostante la sua particolare “natura” (il disco, che ripropone per intero “Sounds that can’t be made”, è stato registrato nel 2013 a Port Zèlande, in Olanda, durante il
Marillion Weekend, una sorta di
happening a cadenza biennale, imperdibile per i tanti
fans dei nostri), “A sunday night above the rain” può rappresentare, oltre che una delizia
cardio-uditiva per i
fedelissimi, anche una valida opportunità di “redenzione” per tutti gli scettici e i “nostalgici”, un po’ perché i brani dell’eccellente lavoro del 2012 in questo contesto acquisiscono un’ulteriore tensione emotiva e un po’ perché anche i pezzi tratti dal resto della discografia della
band sono inseriti con cura in una dimensione espressiva nell’insieme veramente magnetica, intensa e coinvolgente, gratificata da un flusso emotivo praticamente incessante, malgrado l’estensione e la mutevolezza delle composizioni.
Ecco che “Waiting to happen” s’incastona perfettamente tra i diciassette minuti dell’epica invettiva (purtroppo sempre tristemente attuale …) di “Gaza” e il tocco Beatles-
iano dell’iridescente “Lucky man”, seguita da un’emozionante versione di “This strange engine” (cantata a gran voce dal pubblico …) e da una sontuosa interpretazione di “Neverland”, in grado di propagarsi senza soverchie forzature nei saliscendi emozionali di “Invisible ink”.
Lo stesso si può del resto affermare per la magica “The king of sunset town”, collocata tra l’enfasi leggiadra di “Sounds that can’t be made” e le fragilità magniloquenti di “The sky above the rain”, e pure l’inclusione nella
setlist di “Garden party”, apparentemente piuttosto “pericolosa”, si può considerare una scelta vincente, risolta brillantemente da uno Steve “H” Hogarth davvero abile nel gestire, con il supporto degli entusiasti astanti, la “scabrosa” situazione.
Segnalando, infine, il turbamento garantito dalle fascinose emissioni soniche di “Montréal” e le vibranti scosse sensoriali del gioiellino “Power”, non rimane che consigliare a tutti gli estimatori della musica raffinata, poetica e contemplativa di concedere la loro fiducia a questi esperti
progsters, capaci di superare il loro glorioso “passato” con la forza incontenibile della determinazione, dell’ispirazione e del talento e di simboleggiare a tutt’oggi un modello artistico di grande spessore e carisma.