Tutti noi metallari destiniamo un angolino del cuore ad artisti semisconosciuti e di nicchia che, in virtù di un meccanismo psicologico piuttosto elementare, percepiamo come “nostri” ancor più degli eroi di massa
Steve Harris,
Tony Iommi,
Rob Halford e compagnia. Ebbene, tra i “miei” una posizione di assoluta preminenza la occupa senz’altro
Tim Yatras, polistrumentista e cantante australiano.
Nei suoi molteplici sfoghi musicali (troppi per citarli tutti, ma non posso esimermi dal nominare gli inarrivabili
Austere e i
Germ, il cui sublime
Grief non è volato sul podio della mia poll 2013 solo perché ci ho messo le mani sopra troppo tardi), il buon
Tim ha sempre dimostrato di saper trasporre in note rimpianto, tristezza e malinconia con una efficacia e una potenza evocativa senza pari.
Così, quando ho scoperto che proprio lui (seppur nascosto dietro il banale nickname
Sorrow) era la mente dietro l’ancor più banale moniker
Autumn’s Dawn mi sono fiondato, colmo di aspettative, all’ascolto del full length d’esordio
Gone. Aspettative che sono lievitate ulteriormente allorquando ho realizzato che l’altro musicista coinvolto, tale
Anguish -ok, ho capito l’antifona…- altri non è che
Meldengar, chitarrista degli sconosciuti ma a mio avviso geniali
Troldhaugen.
Le coordinate stilistiche, poi, parevano cucite su misura per il sottoscritto: seppur implicitamente, con questo progetto
Yatras sembra voler dar seguito allo sporadico -e splendido- EP
Below the Ever Setting Sun del progetto
Grey Waters, di cui
Gone rappresenta la naturale prosecuzione.
Se dovessero servirvi indicazioni meno sibilline, pensate al DSBM, già di per sé mellifluo, di
Harakiri for the Sky,
A Pregnant Light e
Bonjour Tristesse, e ingentilitelo ancor più con umori indie, fughe shoegaze di alcestiana memoria, riflessioni post rock degne degli
Anathema, una inevitabile spruzzata di
Katatonia e un feeling new wave anni ’80 che dona al sound un nostalgico retrogusto.
A rendere ancor meno estrema la resa del sound ci pensano la struttura dei brani, asciutta sia in termini di architettura che di durata media, la produzione, leggera come il mio portafoglio, e soprattutto la decisione di conferire ampio spazio a clean vocals levigatissime ed educate (in una parola: pop).
Tale scelta, a conti fatti, non si rivela del tutto felice: le strofe di
The Ashes of a Life e
Grace of the Grave, così come il chorus di
Until My Heart Corrodes With Rust, risultano imbolsite da una svenevolezza canora troppo, troppo prossima alle sciagurate recrudescenze dell’emo (dio, o chi per lui, ce ne scampi!).
Altrove, la formula funziona meglio: penso a pezzi di valore come
Blank Stare, Dead Eyes o
Through the Rusted Gates of Time, che innalzano il valore del platter senza, tuttavia, permettergli di insidiare i migliori lavori di
Yatras.
In ultima analisi ci troviamo di fronte a un lavoro interlocutorio, gradevole ma non memorabile, destinato ai metaller più sentimentali e teneroni.
Provaci ancora
Tim.