L’ho sempre pensato, ogni disco, ogni incisione audio ha un suo colore.
Elaborai questo pensiero proprio dopo l’ ascolto di questo EP ormai leggendario. Era il 1991 e grazie ad una recensione di Gianni della Cioppa sentivo per la prima volta parlare dei
Warlord, nella recensione si accostava la parola “miracolo” a questo platter, e capite che per un giovane metaller avido di ascolto l’impatto di quella dicitura fù deflagrante. Iniziò la spasmodica ricerca in tutti i negozi di dischi della città (e non solo) e alla fine ne scovai un vinile, ma ora il problema erano i soldi per pagarlo, all’epoca però la maggior parte dei negozianti proponevano una scappatoia, ti facevano la registrazione su cassetta del disco a una cifra modica. Optai per questa soluzione. Insomma ce l’avevo in mano ora dovevo solo ascoltarlo, misi la cassetta nel mio vecchio registratore e il mio modo di valutare la musica da quel momento cambiò. Finito l’ascolto, l’ho avvertito chiaramente, la mia mente era pervasa da un nero assoluto. Cosa avevo ascoltato? Non è mia intenzione fare un’analisi tecnica di “Deliver Us”, qui la tecnica non c’entra molto, qui c’entra il cuore, si perché questa è musica in grado di andare oggi come allora dritta nei nostri più intimi e reconditi spazi interiori. La chitarra di ” Destroyer” (William Tsamis) suonava in maniera diversa da ogni chitarra ascoltata fino a quel momento, quasi un violino con il suono più pesante, gli assoli erano continui in tutto il brano e disegnavano nebbie lontane dove si può solo intravedere quello che c’è oltre, come se a suonare fosse la forma spirituale di Ritchie Blackmore. Da quelle “nebbie” si stagliavano come punte di alberi la voce di Damien King (Jack Rucker), la voce metal PERFETTA un mix di espressività e potenza senza precedenti e la batteria di Thunder Child (Mark Zonder) che riusciva a sottolineare ogni passaggio del brano con grazia angelica, ma anche con una potenza infernale.
Parlare poi delle singole canzoni sarebbe un inutile esercizio di stile, basterebbe dire che la title track ha il bridge più bello mai pensato da essere umano, che “Winter Tears” ha una linea melodica che sicuramente non è di questo mondo e che “Child of the Damned” ha il più bel riff metal di sempre e che non esiste al mondo un pezzo più inquietante e oscuro di “Black Mass”.
Volete di più? Ve lo dò. In “Deliver Us” non c’è heavy , power, speed, death, black, doom o epic, perché ogni singola nota è già tutto questo, non bisogna per forza cantare come un orco per far paura, non bisogna per forza battere a trecento all’ora per essere cattivi o sparare riff alla velocità della luce o dare alla produzione una potenza spaventosa. Basta avere il talento giusto per creare i giusti accordi, cioè sequenze di note che ora parlano di morte ora di destino ora raccontano gesta epiche e che ora sono nere come la pece. E di talento Mr. Tsamis, Mr.Zonder e Mr. Rucker ne avevano per tre generazioni. Un’altra grande qualità di questo disco è la sua perenne ambiguità nel messaggio, sempre in bilico tra un metal cristiano nero e un metal satanico con la luce in fondo al tunnel, una specie di sempiterno valzer
ying e yang.
C’è comunque da dire che la carriera del
Signore della Guerra dopo questo EP si è un po’ bloccata, con un full lenght che riproponeva 4 dei brani di “Deliver Us” più tre inediti e che in pratica era il rip off di un finto live. Poi bisognerà aspettare il 2002 per il nuovo disco che anche in questo caso proponeva solo tre pezzi inediti (i restanti erano riproposizioni metal di vecchi brani dei Lordian Guard, progetto cristiano di Tsamis), un Cans alla voce che imbrocca la più grande prova vocale della sua vita e uno Zonder sempre in stato di grazia. Nel 2013 di nuovo il ritorno, ma questa è un’altra storia...
Nel tempo comunque il mio amore verso “Deliver Us” è rimasto intatto o forse aumentato, oggi quella misera cassetta del primo ascolto è stata sostituita da ben 5 edizioni (tutte quelle uscite) di questo favoloso album e ogni volta che lo ascolto le emozioni rimangono intatte. Ora il mercato discografico e il mondo della nostra musica è completamente cambiato, ci sono band che riescono a fare in 10 anni 6 o 7 album (in realtà ci sono sempre state), escono migliaia di brani nuovi ogni mese (per non dire dischi). Grazie alla rete tutto è diventato più fruibile per tutti, è completamente scomparsa la magia della ricerca e dell’attesa per un disco, la durata media di un buon album nell’ascoltatore di oggi è al massimo un mese. Un mondo lontano anni luce dal vero
Signore della Guerra, sì perché questi “guerrieri” hanno creato 6 brani (più un’altra manciata) in trenta anni, ma che sono sicuro fra 100 anni quando un ragazzo di 20 anni ne sentirà parlare e dovrà faticare per ritrovarli nei futuri database, al primo ascolto la sensazione sarà la stessa del 1983, come nel 1991 e anche nel 2091, un nero infinito, senza uscita.
A cura di Andrea “Polimar” Silvestri