Recensione difficile, difficilissima. Parlare di un nuovo album di leggende come i
Warlord è rischioso, si rischia di
farla fuori dal vaso ma anche di molto. E’ un disco che aspettavo da più di 10 anni. L’ultimo loro lavoro “Rising Out Of The Ashes”, pur bellissimo, risentiva forse di una mancanza di reale freschezza nei brani, essendo quasi tutti riproposizioni di vecchi brani dei
Lordian Guard.
Come è stato accolto “The Holy Empire” ormai a quasi due anni dalla sua uscita? Ha diviso i fan della band, chi lo considera un capolavoro assoluto, chi un’enorme delusione, io mi sono preso tutto il tempo per giudicarlo e sono arrivato ad una mia personale conclusione: disco bello (che comunque ha qualche pecca),
MA NON E’ UN DISCO DEI WARLORD, E’ UN DISCO DEI LORDIAN GUARD. Credo che la giusta chiave di lettura sia questa. Nella mia precedente recensione di “Deliver Us” ho detto che i dischi possono essere associati a colori o sfumature di essi, ecco il colore predominante di tutte le composizioni del Signore della Guerra è stato sempre il nero, “The Holy Empire” al contrario sprigiona un bianco accecante con notevoli sfumature avorio e già da questo percepisco che qualcosa non quadra. Altro elemento determinante è rappresentato dalla chitarra di Tsamis che per tutto il platter non alimenta quella potenza dei precedenti dischi ma indugia in meravigliosi lavori certosini, raffinatissimi, lavorando in punta di pennello più che con colpi di spatola. Terzo elemento fondamentale, la voce di Anderson, sognante, intangibile, quasi spirituale che rifugge la potenza quasi come se fosse un virus mortale e rende ogni brano etereo e impalpabile, anche quelli più energici. Si, visto da questo punto di vista il disco funziona benissimo come il più grande disco dei Lordian Guard e come il peggior disco dei Warlord. A certificare il tutto ci sono i testi, pesantemente cristiani, che riportano subito alla mente il progetto parallelo di Tsamis e la bellissima copertina (dipinto di John Martin) che raffigura uno dei più bei episodi del Vecchio Testamento al tempo del condottiero Giosuè, quando Jahweh blocca il sole sopra Gibeon e fa vincere la battaglia al suo popolo Israele. Prima parlavamo delle pecche di questo disco, quali sono? La prima si chiama Glory, un brano realmente moscio, non riesce mai a decollare con Tsamis e incredibilmente anche Zonder completamente svogliati, un macigno di inutili orpelli fini a se stessi. Pezzo da bocciare come il più brutto mai creato dai Warlord. La seconda pecca riguarda il brano “Kill Zone”, in se stesso anche ottimo, il più aggressivo del lotto che aveva realmente le potenzialità di riportare alla mente i fasti di brani come “Alien” o “Child of the Damned”, cosa non funziona allora? Non funziona l’ospitata del cantante Giles Lavery che possiede anche una bella voce aggressiva, rovinata e torturata durante tutta la canzone dalla scellerata scelta di un cantato completamente in filtrato, veramente insopportabile. Per il resto il disco funziona con i picchi qualitativi di "Thy Kingdom Come", eccezionale solco che sembra rapito dal primo disco dei Lordian Guard e di "City Walls of Troy", un brano che era addirittura contenuto nel primo demo dei Warlord, da citare anche "Night Of the Fury", con un Anderson su livelli melodici eccellenti e la bella "Father" (altro rifacimento dei Lordian Guard) dal suo ricco caleidoscopio di colori e odori musicali. Chiude il disco la titletrack, sublimazione spirituale di tutto il disco che cresce fino al coro angelico finale. Tutti brani sono sigillati dalla eccellente batteria di Zonder e dalla chitarra fiorettistica di Tsamis, che però a dirla tutta sembrano a volte andare un po’ per loro conto, non c’è vero gioco di squadra non c’è vera sincronia solo lo smisurato talento dei due che sono intenti a superarsi in bravura.
In definitiva è un disco che ci lascia soddisfatti con riserva, ripeto, sicuramente il peggior disco dei Warlord, forse il migliore dei Lordian Guard, si poteva pretendere di più da musicisti di questo calibro, si poteva pretendere più convinzione e aggressività e una maggiore qualità dei singoli brani, ma non sempre i sogni si avverano e anche se da una parte è realmente impossibile arrivare a bocciare un disco come questo per la qualità intrinseca del suo contenuto dall’altra parte questa volta la nuova opera dei Warlord purtroppo ci riporta con i piedi per terra e ci fa capire in maniera inequivocabile che un’era si è chiusa definitivamente.
A cura di Andrea “Polimar” Silvestri