Quando 13 anni or sono ho iniziato ad interessarmi al movimento nu-metal/crossover americano affezionandomi in particolare a band come Ill Niño, Korn e Coal Chamber, non mi erano ancora capitati tra le mani gli album del quartetto portoricano dei
Puya. La scoperta di Fundamental (1999) e del loro particolarissimo e divertente salsa-metal mi ha lasciato delle sensazioni uniche, miste alla sorpresa di constatare con quale abilità e sincronia i Puya riuscissero con una stessa canzone a trasmettere sia l'enorme energia del rock duro, sia a far rivivere il calore delle serate caraibiche e dei balli latini, mescolando riff metal a strofe rap con contorno di salsa e funk.
Nutrivo dunque delle grandi aspettative per il successivo album Union, uscito nel 2001 sotto la medesima etichetta americana del precedente (MCA), fino ad oggi l’ultimo-ahimè-full lenght della band portoricana. E le premesse c’erano tutte: chitarre e sound più pesanti, maggiori distorsioni, produzione indubbiamente migliore con i Puya stessi coadiuvati da nomi del calibro di Andrew Murdock ( produttore dei Godsmack, Chimaira e più recentemente Avenged Sevenfold), e Garth “GGGarth” Richardson (Spineshank, Mudvayne e Rage Against The Machine).
Già dalle prime canzoni si può constatare come i quattro di Portorico siano stati influenzati dal nu-metal americano, nei riff più aggressivi, nel maggior uso del growl e delle percussioni.
La prima traccia dell’album, Ride, ne è una conferma, caratterizzata com’è da un riff secco e distorto, intervallato da un fraseggio funky e un cantato rap molto più graffiante, alla Zack de la Rocha per dire. Dal groove funky-latino americano si passa al ritornello metal con un cantato growl in stile Max Cavalera. Il breve intermezzo strumentale vede il chitarrista Ramon Ortiz cimentarsi in un velocissimo assolo santaniano, per poi riprendere la strofa iniziale.
People inizia con un chorus aggressivo e un riff pesante, per poi cedere il passo ad un andamento funk e rapeggiante. Quello che si nota in queste prime due canzoni è l’abbandono dello spagnolo, anche se verrà utilizzato nei brani successivi, ma in quest’album l’inglese è usato maggiormente, a conferma della quasi completa “americanizzazione” del quartetto. Inoltre gli intermezzi strumentali sono ridotti all’osso, a differenza del precedente Fundamental, e le canzoni sono più lineari, schematiche e dirette (strofa-ritornello-strofa). La nuova direzione dei Puya è confermata dalla successiva Erizo: un inizio roboante con percussioni, batteria e riff alla massima velocità, un cantato rapeggiante che sfocia in un potente chorus alla Soulfly ; e ispirato alla band di Cavalera è pure il breve intermezzo tribale. Stesso discorso per la successiva Socialize: un’esplosione di potenza hardcore con un Sergio Curbelo che ha decisamente acquisito padronanza e sicurezza nel growl (mi sembra di risentire in alcuni frangenti il Chad Gray dei primi Mudvayne).
Il ritornello però non riesce ad incidere molto, così come il brevissimo ponte strumentale, immediatamente seguito dalla ripresa del chorus.
Che dire su queste prime quattro canzoni? Sicuramente non sono più i Puya di Fundamental, si è già detto della produzione migliore, dei riff più pesanti e metal, e dell’influenza di molte band crossover americane come Downset, P.O.D. o Mudvayne. Questo da una parte può essere un bene. Ma perché tralasciare e accantonare in maniera così drastica tutti gli elementi che avevano mirabilmente caratterizzato il loro sound? Dove sono finite le contaminazioni caraibiche e i ritmi salsa e merengue? L’utilizzo dei fiati soprattutto è un elemento che manca totalmente, a vantaggio di un uso massiccio di percussioni. Sembra che il quartetto abbia cambiato identità, per trasferirsi in una sorta di Soulfly portoricani, e gli andamenti trash metal e tribali dei brani lo testimoniano.
Quando avevo ormai perso le speranze, pensando di trovarmi di fronte ad un semplice disco nu-metal, che non aggiungeva né toglieva nulla alle altre numerose band crossover americane, ecco finalmente la luce: Numbed! Una canzone da autentici Puya! Il riff iniziale, con la voce prorompente di Curbelo, accompagnati da un tripudio di percussioni incalzanti, tra cui bonghi e timbali, è quanto di più esplosivo si sia mai sentito dal quartetto portoricano. Una canzone che mi fa letteralmente saltare ed headbangare alla grande, per circa un minuto e mezzo, fino a quando cede il passo a quella musicalità salsa-rock che tanto mi era mancata: una strofa spagnoleggiante immediatamente seguita da un intermezzo melodico latino-americano, con la splendida voce pulita di Sergio sostenuta da cori e un breve assolo caliente di chitarra alla Carlos Santana; dopodiché il brano ritorna al riff iniziale, con le percussioni che acquisiscono velocità e potenza sempre maggiori. Un piccolo capolavoro! Ma non è finita qui fortunatamente…
Dopo la trascurabile Bridge, che nonostante l’inizio promettente, non riesce ad ergersi dalla sua monotonia, è la volta di un altro pezzo da novanta: Si aja! Se potessi stilare una classifica tra i migliori brani in assoluto dei Puya, sicuramente questo si piazzerebbe sul podio. Vi sono presenti tutte le contaminazioni e le caratteristiche che hanno reso peculiare e distintivo il sound di questa band. Dall’inizio metal e soulflyano si passa ad una parte più tranquilla, dove però le straordinarie e numerosissime percussioni non smettono di dettare legge ad un ritmo sostenuto. Mai come in questa occasione Curbelo dimostra di essere un cantante davvero eclettico e preparato, utilizzando con naturalezza e scioltezza prima il growl, poi il rap (rapeggiando ad una velocità notevole), infine il clean. Ed ecco che nella parte centrale del pezzo ritornano le contaminazioni salsa e merengue: un minuto e mezzo godibilissimo e sfrenato tra cori, chitarre acustiche, pianoforte e percussioni, il tutto amalgamato in un ritmo degno dei migliori balli latino-americani e del calore dell’isola da cui i Puya provengono.
Se tutte le canzoni fossero come Si aja e Numbed sarebbe indubbiamente un album da 10. Sfortunatamente il quartetto non riesce a ripetere il capolavoro e soprattutto la varietà artistica del precedente lavoro. Alcune tracce risultano troppo simili tra loro e ripetitive: parlo in particolare di No interference (un brano hardcore con richiami ai Soulfly, tanto per cambiare…), A matter of time (trascurabilissima e priva di mordente) e Union (ritmo potente e rapeggiante, ma assai analoga a Ride, con riff già sentiti. Non ha niente di più da dire all’album, come l’ingiudicabile Semilla, che è solamente un breve intermezzo strumentale ). Pa’ ti pa’ mi e Ahorake invece meritano di essere citate in quanto danno una sfumatura diversa da quella di semplice disco crossover. La prima, di cui è presente anche un video ufficiale della band, potremmo definirla come il vero e proprio manifesto del nu-metal dei Puya: un hardcore spagnoleggiante dove vi è un’inconfondibile matrice latino-americana, un ritmo sanguigno intriso di chitarre pesanti, ma allo stesso tempo ballabile, con tonalità santaniane e un ritornello potente ed orecchiabile, il tutto contornato dalle solite, ineccepibili e svariate percussioni.
Ahorake, tralasciando il chorus, è un perfetto esempio di latin-rock e fusion: il primo e unico brano dell’album in cui troviamo l’utilizzo dei fiati (il trombettista portoricano Juancito Torres è la special guest). Timbali, cajon, maracas, il basso di Hopkins finalmente in prima linea e cori alla Oye como va (la prima che mi è venuta in mente udendo lo splendido sincronismo delle voci) rendono questo pezzo uno dei più riusciti dell’album.
Purtroppo solo poche canzoni di Union possono definirsi veramente da Puya. A mio parere hanno risentito troppo dell’influenza nu-metal americana e di Max Cavalera in primis, come ho più volte fatto notare. Tra l’altro le vendite dell’album non hanno riscontrato la soddisfazione né della band, né della label MCA, che ha deciso di lasciarli al loro destino. Un destino irto e difficoltoso, segnato anche dallo scioglimento del quartetto, durato 4 anni. L’ultimo lavoro risale al 2010, un EP digitale pubblicato su iTunes, alternato a sporadici tour in America, Sud America, Cuba e Portorico. Peccato davvero che non siano riusciti a procurarsi una popolarità più internazionale ed europea. Le potenzialità ci sono tutte.
A cura di Marco "Marcoozzy84" Bevilacqua