La mia predilezione per le formazioni
power trio ha origini antichissime. Ricordo ancora l’abitazione del mio amico Luciano, professore di filosofia, cultore e collezionista di musica, letteralmente straripante di vinili: librerie, scaffali e armadi sembravano cedere sotto il peso dei suoi innumerevoli dischi. Luciano era (è) più grande di me e rappresentava la guida in un mondo tutto nuovo, fatto di grande musica e di grandi letture.
Dicevo origini antichissime: proprio a casa sua, durante gli anni del mio liceo (paleozoico per molti di voi) ho scoperto “Disraeli Gears” dei Cream e, da quel momento in poi, ho misurato tutto sul parametro “trio = basso + chitarra + batteria”, a tutt’oggi quello che considero l’algoritmo risolutore di qualsiasi problema musicale.
Nella ricerca spasmodica di altri gruppi musicali con una formazione di questo tipo, mi sono imbattuto quasi per caso nei texani
King’s X, fino a quel momento per me dei perfetti sconosciuti. Il commesso del mio negozio di fiducia mi mise fra le mani una copia di “Gretchen Goes To Nebraska”, con la faccia soddisfatta di chi sa di aver azzeccato il suggerimento. E l’aveva indovinato eccome!
Con rituale collaudato, nel primo pomeriggio, ho messo su il disco all’impianto stereo paterno e mi sono accomodato in poltrona con tanto di custodia sotto gli occhi, per leggere e studiare ogni dettaglio e ogni descrizione contenuta nelle note: una foto di tre freakkettoni con acconciature improbabili, niente testi (peccato), ma un’intera storia da leggere nella copertina interna.
Ho appreso ed imparato ad amare immediatamente il nome dei miei nuovi eroi: Ty Tabor (chitarra, sitar e voce), Doug Pinnick (voce e basso) e Jerry Gaskill (batteria e voce, non che autore della storia che ha ispirato il full lenght). Il disco (il secondo della loro produzione, datato 1989) è un esempio magistrale di hard rock contaminato da psichedelia e progressive, con un’impronta melodica e vocale che rimanda a Hendrix e ai Beatles (soprattutto nei cori) a seconda che alla voce solista si alternino il nero Pinnick o il “lennoniano” Tabor.
“Gretchen Goes To Nebraska” apre le danze con un suono di sitar che evoca atmosfere e luoghi lontani. Si alza il sipario ed entrano in scena i tre musicisti, che partono con “Out of the Silent Planet”, un mid-tempo in cui già si annunciano quelli che saranno i punti forti di tutto il disco (e di tutta la loro ottima produzione fino all’ultima release “XV”): il basso suona presentissimo e rotondo, a volte in saturazione, ma mai sporco o sovrastante; la chitarra alterna suoni puliti per arpeggi suadenti a suoni distorti, magnificamente contenuti e gestiti, con parti ritmiche sempre efficaci, riff degni della migliore enciclopedia hard rock e soli tecnici e carichi di feeling, come solo i grandi sanno eseguire; la batteria è precisa, potente e senza fronzoli e sostiene perfettamente le ritmiche articolate degli altri due.
Ma è l’uso e l’intreccio delle tre voci a meritare una menzione particolare, in quanto riesce a contraddistinguere ulteriormente un sound già riconoscibilissimo, personalissimo e di sicuro impatto, donando ad ogni pezzo una nota di colore in più, un tappeto sonoro, che a volte accompagna l’intero brano.
“Gretchen Goes To Nebraska” detiene, a mio modesto avviso, un altro gran bel primato, che solo alcuni dischi storici possono vantare: una scaletta in cui si fatica a trovare un solo
filler, un minuto di musica che non abbia intensità, ispirazione e qualità di scrittura e di esecuzione a livelli che altri gruppi provano ad inseguire invano per anni.
Dopo la già citata opener “Out of the Silent Planet” si prosegue con brani tutti di energia pura, cesellati da riff magistrali e soli da capogiro. Troppo difficile e forse persino inutile esprimere delle preferenze: in “Over my Head” la voce soul graffiante di Pinnick esce dalle casse con prepotenza e sembra volare nella stanza; in "Summerland" un bell’arpeggio fa da ossatura ad una canzone d’atmosfera e malinconica, in cui non mancano momenti più serrati e heavy, per gli amanti del genere . Quando parte "Everybody Knows a Little Bit of Something" è quasi impossibile stare fermi e non accennare a qualche passo di danza (meglio farlo quando nessuno ci guarda), tanta è la forza trascinante del pezzo, mentre con "The Difference (In the Garden of St. Anne's-on-the-Hill)" si possono godere tre minuti di poesia e meditazione accompagnati dalla chitarra acustica; una meravigliosa pausa, giusto in tempo per un’altra ondata di hard rock d’alta classe di "I'll Never Be the Same".
"Mission", canzone di aspra critica sul fenomeno mediatico dei predicatori televisivi, è introdotta dal suono di un organo, sul quale entra dirompente l’energia dei tre musicisti, con un giro che ricorda la splendida “White Room” dei già citati Cream. Ancora una volta gran suono, gran voce e grandi cori.
Dopo tanta intensità il disco prosegue con "Fall on Me", brano più diretto e veloce. La chitarra è sferzante, il brano si snoda su vari cambi di tempo, un grande solo ed alcuni magnifici momenti di tensione, in cui basso e batteria, in solitario, fanno viaggiare il pezzo come se fosse un treno lanciato nella notte. Ty Tabor ricama alcuni tocchi caldissimi su questo tessuto ritmico, confermando la rodatissima interazione fra i tre.
Arriviamo a "Pleiades", brano che considero il classico pezzo fuori dal tempo, praticamente perfetto in qualsiasi epoca nell’alternarsi di arpeggi d’atmosfera, cori epici e chitarra dura. E’ la canzone che incarna lo stile e la classe dei King’s X, nel quale si racchiude la summa delle loro abilità di compositori e di musicisti. Bellissimo il lungo intermezzo strumentale, in grado di tenerti incollato alle casse senza ricorrere all’ipertecnicismo a tutti i costi.
In "Don't Believe It (It's Easier Said Than Done)" e "Send a Message", sulla falsariga di "Fall on Me", si predilige l’energia e la rapidità: due brani freschi e potenti, che tengono altissima la tensione del disco.
"The Burning Down" è il grande, emozionante finale, in cui di nuovo fanno capolino echi beatlesiani. Il disco volge al termine fra cori e vari effetti di reverse sulla chitarra, che accenna melodie orientaleggianti e accompagna a destinazione l’ascoltatore, fino alla fine dell’ultimo, preziosissimo solco.
“Gretchen Goes To Nebraska” è un’opera che merita un posto speciale nella storia della Musica Hard Rock. Non riesco ad essere più obiettivo di così. Amo troppo questa band, ma ognuno di voi (i pochissimi che non conoscono questo disco) saprà farsi la propria opinione. Il mio invito è quello di non lasciarsi sfuggire questo gioiello e di proseguire nell’acquisto e nell’ascolto di tutta la discografia di un gruppo troppo spesso, ingiustamente trascurato da pubblico e critica.
Io, a 25 anni di distanza, continuo ad ascoltare “Gretchen Goes To Nebraska” con lo stesso senso di meraviglia e di ammirazione della prima volta. Affacciatevi dalla finestra dallo spazio esterno della copertina, andate a visitare il mondo verde e fertile dei
King’s X, troverete Musica ispiratissima suonata da tre musicisti puri e autentici, una vera rarità.
Se ci fosse da dare un voto, sarebbe uno dei 10 più sentiti che potrei mai assegnare.
A cura di Ennio “Ennio” Colaninno