“
C’eravamo tanto amati per un anno e forse più, c'eravamo poi lasciati ... non ricordo come fu ... ma una sera c’incontrammo, per fatal combinazion […]”.
Non so se Mr. Balamir e i suoi
Amplifier potranno eventualmente apprezzare che per l’
incipit dell’analisi del loro nuovo “Mystoria” questo recensore (un po’ a corto d’idee …) utilizzi le “immortali” parole di “Come pioveva” di Michele Testa (in arte Armando Gill), riconosciuto per essere il primo cantautore italiano.
In realtà, però, è proprio quello che è successo al sottoscritto, infatuatosi istantaneamente del loro debutto “Amplifier”, inebriato da un analogo sentimento per “Insider”, e poi capace di perdere completamente di vista le mosse dei volubili Mancuniani senza un “vero” motivo, se non, forse, il
tourbillon di uscite discografiche che caratterizza i nostri tempi e che finisce inevitabilmente per implicare qualche importante “omissione”.
Il “caso” (sotto le sembianze dell’inossidabile caporedattore di questa gloriosa webzine …) vuole che ora le nostre strade s’incrocino nuovamente e devo dire che ho ritrovato gli inglesi abbastanza “cambiati”, seppur ispirati tuttora da quella febbrile vena creativa, tra passato e presente, che li contraddistingue fin dagli esordi.
Più accessibili, forse, certamente meno “visionari” e non per questo oltremodo convenzionali nella produzione di un suono che oggi evoca brandelli assortiti di King Crimson, Porcupine Tree, Beatles, Muse, Mogwai, Pink Floyd e Black Sabbath, confermando ancora una volta una straordinaria disinvoltura nel condensare con “semplicità” ed equilibrio suggestioni soniche in continua metamorfosi.
Qualcuno li ha definiti una versione “commerciale” dei Mastodon e sebbene non mi ritrovi completamente in questa
iperbolica designazione, è altresì innegabile una certa affinità tra i due gruppi, nella difficile arte della contaminazione tanto convulsa quanto ragionata.
Dall’altro lato, nondimeno, “Mystoria” sconta verosimilmente una fase di modesto appannamento espressivo dei nostri, proponendo un esemplare di
alternative-prog molto gradevole e tuttavia non sempre così “sorprendente” e “a fuoco”, nonché talvolta pure apparentemente un po’ troppo interessato a far emergere la
catchiness su ogni altro aspetto della sua mutevole formula sonora.
Affidarsi comunque (dopo l’epico strumentale “Magic carpet”) alla tensione palpabile di “Black rainbow”, alle mutazioni
doom-psych-blues di “Named after Rocky” e "OMG”, arricchite in "Open up” di striscianti pulsioni elettroniche, vi procurerà una bella razione di scosse emozionali, e sensazioni equivalenti non mancheranno di colpirvi anche grazie alla Rush-
esque “The meaning of it” e alle eteree, oniriche e catartiche “Crystal mountain” e “Crystal anthem”, una sorta di Led Zeppelin
meets Pink Floyd opportunamente adeguata per il terzo millennio.
Se cercate, poi, qualcosa di maggiormente
singolare e
avventuroso, il programma vi propone “Cat's cradle” e “Bride”, “roba” che con i suoi saliscendi sul pentagramma mi ha ricordato certe cose dei primi, favolosi (e incompresi …), Shudder To Think e che potrebbe indirizzare la band verso un nuovo livello nella concezione di “canzone rock”.
A differenza del protagonista del brano di Gill è mia ferma intenzione “rivedere” quanto prima gli Amplifier, rinfrancato dalla solida speranza che, dopo avermi attratto ancora una volta, sappiano presto “sconvolgermi” come ai bei tempi.
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