Dopo lunghi anni di gavetta, fatta di dischi straordinari e tour massacranti, il successo "totale" per gli
AC/DC arriva con "
Back In Black". Ironia della sorte, proprio quando uno dei suoi "attori protagonisti" (leggasi
Bon Scott) non è più della partita. Un destino amaro, imputabile all'ennesima sbornia colossale del cantante australiano, stavolta risultata purtroppo letale. Tutti sanno come vanno le cose dopo la tragedia, perché gli AC/DC sono diventati nel corso dei decenni un'istituzione planetaria, sdoganata ormai anche presso quei fruitori di musica che solitamente evitano sonorità troppo spinte e muscolari. "Back In Black" (1980) sfonda ogni barriera di vendita, "
For Those About To Rock" (1981) consolida la sacralità elettrica di
Angus Young e compagni, nonostante un tasso qualitativo di livello, ma francamente non paragonabile ai picchi registrati dal suo predecessore.
Passano due anni prima di rivedere nuovamente campeggiare il logo del gruppo nei negozi, un lasso temporale fisiologico, non soltanto per il meritato riposo da fatiche e stress, ma anche per metabolizzare un successo commerciale che ha ben pochi eguali nella storia del rock. A differenza dei succitati dischi, "definiti" dal guru della consolle
John Mutt Lange, che li hanno definitivamente incoronati nel gotha dell'hard'n'heavy, stavolta gli AC/DC scelgono la strada semplice e lineare dell'autoproduzione. Del resto, la decennale esperienza maturata negli studi di mezzo mondo giustifica tale opzione senza timori.
I fratelli Young sono davanti sostanzialmente a due strade: la prima, ammorbidire il "muro del suono" anche per rincorrere certe tendenze, soprattutto d'Oltreoceano, volte a smussare determinate asperità del rock pesante.
La seconda, fregarsene dei trend e sbattere in faccia ai fans il solito tornado ad alto voltaggio, che ha caratterizzato fino a quel momento la loro impareggiabile carriera. Inutile dire che la band australiana tira dritto per la propria strada, aizzando addirittura la "vena bastarda" con una decina di canzoni cattivissime e senza compromessi.
"
Flick Of The Switch" è probabilmente l'album più heavy metal oriented della loro discografia, e la copertina che vede uno stilizzato Angus Young alle prese con un enorme interruttore elettrico, è la perfetta fotografia dei suoi intransigenti contenuti. Il deflagrante riff di "
Rising Power" apre le ostilità con la grazia di un elefante in una gioielleria, seguita a ruota da una "
This House Is On Fire" che vede
Brian Johnson sputare anche l'anima per modulare al meglio una linea vocale che non cede un millimetro a facili melodie da classifica. Per non parlare dell'esplosivo impatto di una title-track letteralmente spietata, oppure dello scatenato rock'n'roll metallizzato di "
Landslide". La sola "
Nervous Shakedown" sembra strizzare l'occhio alle cadenzate "
You Shook Me All Night Long" e "
Let's Get It Up", ma il sound secco ed asciutto non mostra alcuna chance in vista di una possibile e massiccia diffusione airplay.
Il fatto è che gli AC/DC si sentono talmente sicuri ed inespugnabili nella loro fortezza, che non sentono affatto il bisogno di apparire ruffiani e "piacioni", nemmeno in un solo episodio del 33 giri. È questa la giusta ottica per capire l'approccio selvaggio di una "
Guns For Hire", di un bluesaccio bombardato di steroidi come "
Deep In The Hole", ma soprattutto di una "
Bedlam In Belgium" che sarebbe in grado di abbattere un palazzo.
Il disco registra anche l'ultima performance realmente impressionante di Brian Johnson, anche perché da "
Fly On The Wall" in avanti la sua voce inizierà a risentire comprensibilmente dell'usura del tempo.
Al di là delle gratificanti affermazioni commerciali, che non danno tuttora il benché minimo segno di cedimento, resto fermamente convinto che "Flick Of The Switch" rappresenti l'ultimo, autentico capolavoro da studio firmato AC/DC.
Ai posteri l'ardua sentenza.