Copertina 10

Info

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Anno di uscita:1974
Durata:37 min.
Etichetta:EMI

Tracklist

  1. STORMBRINGER
  2. LOVE DON'T MEAN A THING
  3. HOLY MAN
  4. HOLD ON
  5. LADY DOUBLE DEALER
  6. YOU CAN'T DO IT RIGHT
  7. HIGH BALL SHOOTER
  8. THE GYSPY
  9. SOLDIER OF FORTUNE

Line up

  • David Coverdale: vocals
  • Glenn Hughes: bass, vocals
  • Ritchie Blackmore: guitars
  • Jon Lord: keys
  • Ian Paice: drums

Voto medio utenti

Inutile girarci troppo intorno. Sarò pure tacciabile di essere antistorico, ma quando si parla di Deep Purple non posso nascondere di preferire (nemmeno troppo velatamente) la “Mark III” alla “Mark II”, non c’è niente da fare.

“In Rock”, “Fireball” e “Machine Head” sono dei pilastri su cui ho costruito intere cattedrali di ascolto e sono dischi che ho a dir poco consumato nel corso degli anni, capolavori indiscutibili: Ian Gillan è mostruoso, all’apice della forma e incarna magnificamente il ruolo di frontman del gruppo in modo fascinoso e contradditorio (screamer dalla faccia d’angelo). Ma il miracolo del connubio delle voci di Coverdale e Hughes è una di quelle magie della storia della musica che accadono ogni 50 anni, mi è bastato ascoltare “Burn” per la prima volta per esserne sicuro e per non cambiare mai più idea.
Nel film documentario “Gettin' Tighter - The untold story of the 1975/1976 MKIV World Tour”, ho sentito Glenn Hughes definire “statica” la musica della Mark II, gli ho sentito affermare che la musica che lui preferisce deve in qualche modo “farlo muovere”, non dichiarandosi, di fatto, un grande fan del gruppo nella versione che precede il suo arrivo. Ecco, sparate boriose da star a parte, io nel mio piccolo non userei mai il termine “statico”, quanto piuttosto “monolitico”, attribuendo a questo aggettivo un’accezione senz’altro positiva: i Deep Purple Mark II sono una macchina da guerra, un carrarmato, una schiacciassi. Tuttavia, il sound post Gillan si arricchisce di sfumature e influenze meno ortodosse, che deviano dal Rock tanto caro al Blackmore di quegli anni, ma che fanno scattare tutti i sensori d’allarme dei miei timpani, con buona pace della tradizione e del sentire comune.

Siamo nel novembre del 1974 e la band pubblica “Stormbringer”, seguito del già citato, strepitoso “Burn”, uscito poco prima, addirittura nel febbraio dello stesso anno. In “Burn” hanno già debuttato il perfetto sconosciuto David Coverdale (voce) e Glenn Hughes (basso e voce - già in forza al super trio Trapeze), che prendono il posto di Ian Gillan e Roger Glover, usciti dal gruppo a causa di varie e ormai cronicizzate tensioni, di cui Blackmore è in gran parte catalizzatore negativo. Iniziava l’era Deep Purple Mark III.
A guardare le date di pubblicazione fa abbastanza impressione constatare quanto rapidamente le cose in casa Deep Purple cambino repentinamente: tutti gli elementi musicali di novità, timidamente introdotti ed accennati nell’esordio della nuova incarnazione, esplodono letteralmente in “Stormbringer”. Viene facile dire che la tempesta annunciata nel titolo dell’album viene portata dai due nuovi elementi, che spintonano in fase compositiva e marcano in modo netto il sound, infarcendolo di spunti funky e soul. Può sembrare una follia, ma, al contrario, ritengo che la cosa funzioni a meraviglia. Se nella band hai due elementi con caratteristiche differenti e di qualità elevatissime, perché incatenarli all'obbligo di emulazione di Gillan e Glover? Coverdale è tutto mosse sensuali e sospiri, ha una voce potente e calda e può “giocare ad impersonare” Robert Plant e/o Paul Rodgers; Hughes è un bassista più eclettico e ha una voce (e che voce) che può spaziare da un timbro a là Stevie Wonder a quello energico da voce hard rock più canonica. Perché non mettere sul piatto simili potenzialità? A me di “Stormbringer” è sempre piaciuto proprio questo. Rappresenta un magnifico ibrido: si ha la possibilità di ascoltare la forza granitica dei Deep Purple, mediata e contaminata da suoni “black”, in uno stile che Jeff Beck sta già percorrendo in quegli anni e che troverà la sintesi perfetta nel suo ottimo “Blow by Blow”. E comunque, come cercherò di illustrare a breve, in questo disco le bordate in pieno stile purpleiano non mancano di certo.
La continuità col passato è garantita dalla title track che apre il disco, sostenuta da un bel riff di Blackmore, meno furioso e veloce dell’intro di “Burn”, ma cesellato in un incedere ugualmente trascinante. Si comincia a danzare con la circospezione ed il timore dell’imminente pericolo del tornado, preannunciato dalle inarrivabili tastiere del mai troppo lodato Jon Lord e poi si viene travolti dalla forza d’urto del combo al completo. Ogni pezzo del puzzle è al posto giusto: le strofe, i ritornelli, l’intreccio delle voci, i duelli fra chitarra e hammond, la sezione ritmica precisa e potente, tutto si compone in uno stile roccioso per intensità, eppure agile per scorrevolezza del brano. “Love Don't Mean a Thing” è un pezzo suadente in cui la voce passionale di Coverdale trova la perfetta collocazione (sempre coadiuvato dalla “spalla” Hughes, che oltre ai cori canta anche qualche strofa). Ottime le tastiere, soprattutto nell’assolo centrale, mentre Blackmore chiude il brano ritagliandosi il finale con la sua parte di chitarra calda e piena di feeling.
“Holy Man” e la successiva “Hold on” si fanno notare per l’assenza del Man in Black fra i crediti degli autori. “Holy Man” è una splendida ballad affidata alla voce solitaria di Hughes, che alterna quest’onere con Coverdale (cui spetterà di cantare da solo la traccia finale del disco). Impossibile relegare questo fenomeno al ruolo di seconda voce o di bassista puro; troppo bravo Glenn, troppo talentuoso, troppo espressivo. La bellezza del brano è frutto e merito della collaborazione Lord/Hughes, che a mio modesto avviso è una delle sinergie più cariche di potenziale e purtroppo meno sfruttate della storia del rock.
“Hold on” è una altro pezzo di gran classe, in cui le tastiere aprono in modo esemplare ed invitano all’ingresso del ritmo di Paice, il solito metronomo, così come usuale è la perfetta combinazione delle due voci, non mi stanco di dirlo. Unico neo (unico dell’intero disco, ma abbastanza vistoso) è l’assolo di Ritchie, evidentemente davvero poco a suo agio con queste sonorità. Sembra giochicchiare sul manico, in attesa dell’idea giusta, che purtroppo non arriverà. Tutt’altra roba il successivo intervento di piano elettrico di Lord, autentico gioiello. Con “Lady Double Dealer”, “You Can't Do It Right (with the one you love)” e “High Ball Shooter” risale in cattedra Blackmore, che riporta il treno dei Deep Purple sui binari che il chitarrista meglio conosce e che percorre con maggiore sicurezza: la prima e la terza sono due scosse elettriche di energia rock’n’roll, che Ritchie suggella con il suo stile, mentre in “You Can't Do It Right” riesce alla perfezione la fusione fra rock e funk. Impossibile non citare ancora il lavoro del compianto Lord, questa volta alle prese con il suo moog.
“The Gypsy” è un brano in cui tutti gli elementi della band partecipano alla scrittura (e si sente): fantastico l’incipit con un tocco sciolto di Paice, sul quale si stende densissimo l’hammond. Il giro di Blackmore, ispirato e carico di phaser, richiama l’atmosfera di “Mistreated”; le voci cantano all’unisono, creando un flusso sonoro incredibile, mentre i tocchi di piano elettrico sembrano brillare nel buio, nei momenti in cui il brano rallenta. Per me si tratta di un capolavoro della band.
Chiude “Soldier of Fortune”, offerta dal duo di autori Coverdale e Blackmore (che saluta e se ne va per una decina d’anni), brano in cui la chitarra ha il ruolo di primissimo piano, prima acustica e poi nell’assolo appassionato. Grande interpretazione di Coverdale, che sveste i panni di rocker aggressivo e chiude il disco con toni più malinconici.

Il voto che do a questo disco è da eretico, ma è sincero e totalmente scevro di polemiche: le uscite targate Mark III per me sono tutte da 10. L’alchimia perfetta magari non si manifesta in tutti i brani, ma la tensione creativa (anche lo scontro) che si percepisce in alcune canzoni produce sempre risultati eccellenti. Nel nuovo corso intrapreso dai Deep Purple l’elemento meno a proprio agio e a volte fuori contesto è sicuramente Ritchie Blackmore, che difatti lascerà e andrà a formare i Rainbow, inanellando una serie positiva di capolavori non indifferente (ma anche lui, negli anni, finirà col tradire quel suono classico e puro che avrebbe voluto preservare per i suoi Deep Purple). La Mark III è una cometa di eccessi e decadenze, ma anche di talento espresso a profusione; rappresenta una fase della carriera che io amo particolarmente per la grande capacità dimostrata di reinventarsi di questo imprescindibile gruppo, anche a rischio di snaturare alcune certezze ed alcuni assiomi consolidati dal tempo e dall’immenso, meritato successo. Dopo la Mark III (prima della reunion della Mark II del 1984) ci sarà l’ultima, folle accelerata della band inglese, con Tommy Bolin e Glenn Hughes alla guida (ma ubriachi al volante). Altra grande storia, che spero venga raccontata presto su queste pagine.

A cura di Ennio “Ennio” Colaninno

Recensione a cura di Ghost Writer

Ultime opinioni dei lettori

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Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 30 nov 2014 alle 10:24

giù il cappello...grande disco e grande Ennio.

Inserito il 30 nov 2014 alle 09:47

.......e io spero che questa storia venga raccontata da un grande appassionato di nome Ennio, anche perche' Come Taste The Band e' uno dei miei dischi preferiti di tutti i '70.

Inserito il 30 nov 2014 alle 01:46

Rece fantastica Ennio, fantastica

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