Questi australiani mi hanno fulminato. Cercherò di spiegarvi perché.
Voce nasale, quasi stonata. Ritmiche lineari, poco fantasiose. Riff basici. Suono asciuttissimo, senza il minimo orpello. Produzione appena accettabile. Ma appena spingo play, mi si accende il sorriso in faccia, perché in questo disco si sente la polvere del deserto, l’odore della polvere da sparo dei fucili che hanno appena fatto fuoco, si sente chiaro l’odore di muffa di anfratti segreti e celati dove vengono consumati i più efferati riti, si sente odore di vita vera, non c’è finzione, non c’è artificio, come non c’era nei dischi dei Cirith Ungol, dei Budgie o degli Heavy Load. I Convent Guilt potranno raccogliere cotanta eredità? Per me si, se sapranno mantenere intatta la loro integrità. La parola integrità e la parola METAL dovrebbero sempre andare a braccetto, perché cos’è questa musica se non un antico richiamo atavico, l’essenza delle nostre emozioni, tutto quello che cerchiamo realmente nella vita, l’andare diretti allo scopo ultimo, il pulsare della vita stessa. I Convent Guilt riescono in tutto questo, con una semplicità disarmante e ci portano indietro, in un tempo dove valeva solo chi eravamo e le nostre capacità come uomini per la pura e semplice sopravvivenza. Disco ORIGINALE e qui ripeto il discorso fatto tempo fa per i Mausoleum Gate, non si tratta di semplice riproposizione o copiatura (Enforcer, Stellwing e compagnia), ma di sonorità reali, uscite nel 1978/80 e per qualche strana ragione fatte sputare fuori da qualche buco temporale, qui nel 2015.
Basterebbe la doppietta iniziale a mettere la parola fine a tutto il discorso, come fù nel caso della doppietta iniziale di “Frost and Fire”. Ritmiche serrate e trascinanti, melodie asciuttissime ma che riescono a penetrarti come uno stiletto nell’animo, assoli semplici ma efficacissimi e le ritmiche delle chitarre che finalmente fanno “SGRANG”, e la voce, la voce, sublimemente sgraziata e nasale, la voce di un mercenario e di un guerriero, vera e sanguigna. Ma tutto il disco viaggia su queste coordinate, con i picchi della title track, di Desert Brat e della veloce e conclusiva Stockade.
E qui entriamo nel discorso più delicato, perché ascoltare i Convent Guilt? E qui mi trovo in netto disaccordo con la recensione di Bertogliatti che accumuna gli Australiani al carrozzone revival degli ultimi anni, i Convent Guilt sono UNICI, unici nell’attitudine che riescono a esprimere, unici nella continuazione del reale spirito metal che alimentava la scena nel suo momento d’oro, unici perché un semplice brano contenuto in questo disco riesce ad essere più credibile di mille orchestrazioni, passaggi complicatissimi, mega produzioni, o raffinatissime avanguardie. Qui non valgono le melodie ricercate, non vale la tecnica, non vale la potenza o la rabbia sprigionata, perché Guns For Hire è un’incantesimo, è un rito ancestrale, la pozione di uno sciamano, un media che ti mette a nudo con te stesso e porta tutto in superficie, facendoti vedere cosa sei realmente. Troppo per un semplice disco, forse, ma sarò disposto a combattere mille battaglie a usare le metafore più sconvolgenti a scrivere fiumi e fiumi di parole per difendere il mio pensiero al riguardo, perché INTEGRITA’ e METAL sono tutto quello di cui è fatto Guns For Hire e io sarò sempre dalla loro parte.
Disco dell’anno passato per il sottoscritto. Lo dico in ritardo, perché sono riuscito ad ascoltarlo solo ora.
A cura di Andrea “Polimar” Silvestri