Nel 1993 i Rush pubblicano “Counterparts”, il disco con il quale i tre vorrebbero ulteriormente allontanarsi dalle presunte mollezze e raffinatezze (per alcuni eccessive) delle produzioni precedenti, in virtù di una scelta meditata (e combattuta) internamente ed in virtù dell’intervento a gamba tesa di Kevin “Caveman” Shirley, fonico rude e risoluto, che vuole fortemente restituire ai Rush un sound più aggressivo. Il desiderio di
Alex Lifeson, chitarrista co-fondatore del trio delle meraviglie, è da qualche tempo quello di riportare la chitarra al centro di tutto, ma ad ogni uscita discografica il proposito sembra sempre allontanarsi un po’ più avanti e svanire beffardo come un miraggio. Rupert Hine, produttore (con la band) di “Presto” e “Roll the Bones”, ci prova seriamente a restituire ai Rush l’identità di power trio, ma probabilmente il processo di trasformazione intrapreso è andato troppo oltre per essere fermato o invertito dai suoi miti e discreti consigli.
Shirley prova la terapia d’urto e impone la propria visione “old school” su tecniche di registrazione e approccio musicale: per le prime ottiene un risultato eccellente, ma per quanto riguarda l’approccio musicale, riesce solo parzialmente a centrare l’obiettivo. Il suo decisionismo, tra l’altro, è del tutto controproducente con Lifeson, privato di alcune sue certezze stilistiche e contestato sulle scelte di suono ed effettistica della sua chitarra.
Che cosa deve fare un musicista frustrato, da anni spinto in un angolo dalle ingombranti tastiere di Geddy Lee, in crisi con se stesso, al minimo storico delle relazioni con i compagni di gruppo ed in rotta con tecnici e produttori? Che cosa deve fare un chitarrista che cerca di recuperare quella centralità che gli è propria in un gruppo Rock? Produrre un disco solista, ecco cosa deve fare.
A metà ’94 inizia un periodo sabbatico per i Rush, che si prendono una pausa e si dedicano ad altre attività musicali e familiari. Alex, dopo aver a lungo tentennato, alla fine dell’anno decide finalmente di dedicarsi ad un disco tutto suo, nel quale ritrovare motivazioni personali, autostima e giusta direzione musicale.
Il progetto vede la luce a nome “Victor”. La scelta è singolare. Nessun Alex Lifeson Project, bensì “Victor”, titolo di un componimento poetico di W.H. Auden, che Lifeson decide di musicare e mettere su disco. Il pezzo, cupo e morboso, in effetti, sembra ben caratterizzare e descrivere l’intero album e la natura delle composizioni, che tratteranno per lo più dell’amore, analizzato dal punto di vista dei suoi eccessi e delle sue tragiche distorsioni. Un Alex Lifeson che non ti aspetti, insomma, lontanissimo dalla figura gioviale e scherzosa a cui il pubblico è abituato.
Con “Don’t Care”, traccia di apertura, si capisce subito che non si scherza: il suono è durissimo, con chitarre e basso (ottimamente suonato dallo stesso Lifeson) spietati e vagamente noise. Il riff è aggressivo ed articolato e si sposa perfettamente ad un testo davvero ruvido, cantato in modo disperatamente poetico dal singer Edwin (preso in prestito dagli I Mother Earth per la quasi totalità dei brani del disco).
“Promise” è un gran bel pezzo di hard rock moderno, in cui il gruppo (che comprende Blake Manning alla batteria, Bill Bell alla seconda chitarra e il già citato Edwin alla voce) fa bella mostra delle proprie capacità, capitanato da un Lifeson sicuro, ispirato e ottimo in fase di scrittura, arrangiamento, esecuzione e registrazione.
In “Start Today” fa capolino il primo ospite del disco, la cantante canadese Dalbello (al secolo Lisa Dal Bello). Il brano è una clamorosa citazione di una delle fonti di ispirazione più importanti per Alex e i primi Rush, i Led Zeppelin: impossibile non riconoscere nel giro di chitarra qualcosina di “Four Sticks”. Ma il gioco sta anche nell’autocitarsi: solo un sordo non accosterebbe la voce della talentuosa cantante ospite al Geddy Lee di inizio carriera, tutto strepiti ed acuti in stile Plant. Si ha quasi l’impressione di ascoltare una registrazione da “Fly by Night”. Tutt’altra atmosfera nel successivo “Mr X”, in cui si percorre la strada ben più rilassata e collaudata del classico pezzo strumentale, con la chitarra in primissimo piano, con una buona melodia e la possibilità per il guitar hero di fare sfoggio delle proprie capacità. Intermezzo carino, ma che sembra tradire l’intenzione di non pubblicare il classico disco da chitarrista, per chitarristi.
Per fortuna si ritorna immediatamente sui binari di originalità e ricercatezza con “At the End”. A coadiuvare Alex c’è suo figlio Adrian Zivojinovich (il nome d’arte “Lifeson” è la traduzione letterale dal cognome slavo). Il figlio Adrian introduce nel disco delle sonorità elettroniche che trovo perfette per le atmosfere di musica e testi. Al minuto 2:18 lo sviluppo del brano ricorda gli algidi (e ottimi) King Crimson degli anni ’80; poi sulla voce recitata (canta lo stesso Alex) si snoda un assolo carico di feeling. Plumbee tastiere colorano di scuro un’altra canzone su amore e morte, temi portanti di tutto il progetto Victor. Sorprendente ed emozionante.
In “Sending Out a Warning” merita un plauso la sezione ritmica, composta da Lifeson (anche) al basso e un Manning che spacca tutto sulla sua batteria e che ci tiene sospesi con potentissimi indugi sul rullante. Si respira un po’ in “Shut Up Shuttin’Up” in cui torna, almeno per un po’, l’umorismo del biondo chitarrista: le incessanti chiacchiere della moglie Charlene e della sua amica Esther vengono immortalate in una registrazione, che mi ha ricordato “Valley Girl” di Frank Zappa, in cui l’insopportabile bla bla era quello della figlia Moon. Più le donne chiacchierano sulla base musicale, più la chitarra si infiamma (bellissimo l’assolo, animatissimo e tumultuoso il basso), fino a quando il grido disperato di Lifeson non chiude il brano con l’ordine di tacere (“shut up!”, appunto, ripetuto con insistenza e soddisfazione).
Veniamo al gioiellino acustico dell’album, “Strip and Go Naked”, brano che prende il nome da un cocktail inventato dal chitarrista Bill Bell (“spogliarsi e andar via nudi” pare fossero gli effetti indotti da questa pozione alcoolica). Chitarra acustica, slide dolcissima, assolo da favola e qualche incursione di chitarra più dura fanno di questo pezzo uno strumentale da 10 e lode. Non si può chiedere di più.
Torna Adrian a impreziosire il disco con i suoi innesti elettronici, torna la descrizione cruda dell’amore che fa male o che è del tutto assente, un’illusione per sciocchi, arriva addirittura Les Claypool al basso: benvenuti a “The Big Dance”, un calderone infernale di voci e suoni distorti, in cui si stenta a credere che musiche e testi così amari e disincantati possano essere stati partoriti da quel visino sorridente di Alex Lifeson.
Quando poi parte “Victor” si è davvero spiazzati: stiamo ascoltando una costola dei Rush o i Depeche Mode? Una tastiera fredda e tagliente accompagna la recitazione monotòna e monocorde della poesia di Auden, splendidamente arricchita da lampi di follia, sussurri, grida e da un crescendo di strumenti e dettagli che ci portano fino al drammatico epilogo del racconto, con tensione sempre maggiore. Amore, seduzione, pazzia e morte. Victor, il protagonista di questo folle poema, seduce e poi assassina la sua amata. Di una glacialità e di un vuoto che davvero ti lascia incantato per alcuni secondi. Magnifico.
Si chiude con “I Am the Spirit”, hard rock più canonico e ricco di energia, con un bellissimo intermezzo più intimo e d’atmosfera, rotto dal solo infuocato e dal conseguente e dirompente ritorno al riff iniziale. La voce di Edwin strepita, un po’ “cornelliana” per poi cedere il passo all’arpeggio finale. Giusto, in fondo, che questo disco si chiuda col suono della chitarra.
Alex Lifeson compone, suona (chitarra, basso e tastiere), seleziona talenti, registra e produce. Non solo. Si prende il lusso di non pubblicare un disco di puro sfogo egoistico strumentale, come forse in molti si aspettavano. Sceglie atmosfere e temi impegnativi a volte persino indigesti. Segue libero e in totale autonomia la sua arte, responsabile in prima persona di ogni dettaglio e ci regala un grandissimo disco, che purtroppo non avrà un seguito. Una scommessa vinta, che ci restituirà un musicista ed uno spirito rigenerato, più consapevole delle proprie immense doti, pronto a riportare questo bagaglio
(ri) conquistato alla band madre, con la quale, per fortuna, continua a deliziarci con uscite di qualità indiscussa.
A cura di Ennio “Ennio” Colaninno