Inutile girarci intorno o affidarsi a futili preamboli.
Gli
Hell In The Club sono uno dei migliori gruppi di
hard/sleaze rock dell’intera scena di riferimento.
Anzi, nello specifico, bisognerebbe addirittura parlare esplicitamente di
hair-metal, una sigla che personalmente non ho mai amato moltissimo per i suoi connotati denigratori, ma che, in qualche modo, al tempo stesso identifica fieramente le caratteristiche di un genere musicale di cui la
band italiana, con questo “Devil on my shoulder”, è diventata maestra.
Smussate alcune spigolosità di “Let the games begin”, oggi gli Hell In The Club si rivelano credibilissimi alfieri del celebre approccio all’insegna del “
nothin’ but good time” (sebbene con l’ausilio di testi non banali, comprendenti anche citazioni letterarie autorevoli, tra Paola Barbato e Daniel Pennac), adeguatamente declinato ai nostri giorni, in un misto di energia, testosterone, adescamento e sudore, veramente coinvolgente e trascinante.
Nei quarantotto fiammeggianti minuti di durata del disco non troverete la benché minima ombra di artificiosità e nemmeno fastidiosi eccessi di “devozione” rivolti ai numi tutelari Warrant, Poison, Def Leppard, Danger Danger e Motley Crue, bensì un selvaggio e ammiccante spirito
stradaiolo che rivive nella sua piena e
edonistica essenza, per la gioia di chi ama
riff potenti,
solos scattanti,
refrain vincenti e fiotti imponenti di adrenalina.
Una crescita importante che coinvolge sia il profilo tecnico, sia quello compositivo, per un gruppo che verosimilmente ha consolidato la sua coesione e forse pure la consapevolezza di poter “fare la differenza” anche in un campo “leggermente” diverso da quello in cui era “abituato” a muoversi (stiamo parlando di musicisti provenienti da Elvenking, Secret Sphere e Death SS).
Qualunque siano le argomentazioni a sostegno di tale risultato, accogliamo con grande soddisfazione un programma in cui individuare una nota fuori posto o una linea melodica inefficiente è abbastanza complicato, che conquista fin dall’ariosa struttura armonica di “Bare hands” e che termina di lusingare i timpani solo quando arriva l’ultimo sussulto di “Night”, un riuscito
melange di malinconia, grinta e ruffianeria.
Tra i due estremi troverete, poi, la spontaneità della
title-track e di “We are the ones”, la spigliatezza
glitterata di “Beware of the candyman”, la carica e il “tiro” di “Whore paint” e ancora la dissolutezza urbana di “Save me” e “Toxic love”, tutti fulgidi esempi di emozioni intense, alimentate da una dose “giusta” di nostalgia.
Due parole, infine, sui brani che considero le autentiche perle dell’albo, “Proud” e “No more goodbye”, “roba” che nelle mani giuste e in “altri tempi” avrebbe monopolizzato i
media e avrebbe garantito agli Hell In The Club un bel numero di
groupies entusiaste (magari pure ora, chissà …).
Un pugno di belle canzoni, di viscerale attitudine e di divertimento … un disco di
rock n’ roll d’alta scuola, insomma … praticamente imperdibile.