Può la straordinarietà essere normale? A quanto pare sì.
Un'ossimoro che la dice lunga sulla qualità della band norvegese, che non concede spazio all'aridità creativa e prosegue il fertile cammino intrapreso dal 2000 in poi. Un percorso che ha portato ad innumerevoli capolavori, album eccezionali che una volta ascoltati ed assimilati, facevano nascere nell'ascoltatore la domanda:
"
È così bello che... dopo, cosa faranno? Sapranno fare di meglio?".
Di uscita in uscita, questa risposta è sempre stata affermativa, gli
Enslaved hanno mantenuto una qualità assoluta, riuscendo di volta in volta a contaminare le loro composizioni con il prog, l'hard settantiano, le tastiere, atmosfere e soluzioni uniche, tenendo ben saldo l'aspetto black metal, elemento portante mai scomparso dal loro suono.
Ed è proprio con il black metal tagliente e veloce che si apre questo
In Times.
Thurisaz Dreaming è talmente cruda da fare pensare ad un ritorno al passato, ma ben presto cambia corpo e cominciano i suoi "movimenti" che le fanno mutare pelle diverse volte.
Le sole 6 canzoni dell'album, evidenziano un allungamento dei pezzi che si assestano tutti sugli 8 minuti, con l'eccezione della title track di oltre 10.
Durante lo scorrere dei secondi, scorrono emozioni, l'album muta a più riprese il suo mood, diverse volte per ogni canzone e si fa più sognante, crudo, poetico oppure oscuro, alternando voci magnetiche a crude urla, il pugno con la carezza, le dissonanze con la melodia.
Altro esempio è la bellissima
Building With fire, brano piuttosto "tranquillo" dal ritornello che ti si stampa in testa, ma che ha i suoi momenti cattivi. Grandeur, cori ed epicità permeano invece
One Thousand Years of Rain (tra gli highlight assoluti del disco) ennesimo pezzo perfettamente bilanciato che, nonostante non sia diretto, entra nella corteccia celebrale alla svelta, e ci rimane. Non ho volutamente parlato del lato prettamente progressive degli
Enslaved, finora un po' nascosto, ma che emerge prepotente in
Nauthir Beeding, brano da pelle d'oca che si avviluppa costantemente su nuove soluzioni senza staccarsi troppo da una linea guida immaginaria e regalandoci soli, ambientazioni e momenti di altissima musica. Questa impostazione prosegue sulla title track, che integra stacchi prog '70 verso la metà, dopo essere già passata per momenti sinfonici, black, tastiere... mostruoso che il tutto abbia un senso e sia perfettamente al suo posto. Chiude il lavoro la maestosa
Daylight, forse il brano più "complicato", più prog, ma sempre eccellente.
In definitiva, su questo
In Times sembra quasi che ci siano brevi componimenti definiti dentro ad ogni titolo. A differenza di alcuni lavori precedenti, si sentono l'inizio, lo sviluppo, il cambio e la fine delle canzoni, non c'è più quella sensazione di "unicum", di disco "da singola traccia". Altra sensazione che si avverte, è quella di un album che parte più diretto e raggiunge, poco alla volta, un maggiore grado di complessità. Un disco che non spinge più in là la creatività della band, ma risulta più "immediato", come se gli
Enslaved si fermassero un attimo a guardare quanto fatto finora e cercassero di sintetizzare la loro proposta. Una scelta, sembra, voluta da
Ivar Bjørnson che ha approcciato il songwriting proprio con questo intento.
Come giudicare questo
In Times rispetto ai precedenti lavori? Sinceramente non farei paragoni con
Riitiir oppure con
Vertebrae, è "semplicemente" un nuovo fantastico tassello nella straordinaria storia della band norvegese, solo, meno innovativo.