Qualcuno si ostina a storcere il naso davanti alla Relapse, tacciandola di produzioni troppo estreme e qualitativamente poco attraenti. A mio parere questo è un segnale che indica il lento declino del gusto e dell’eccitazione per l’ascolto di sonorità rumorose e dilanianti, rabbiose e violente, grondanti potenza ed aggressività, alienazione e dolore, in sostanza dell’heavy metal com’era stato concepito alla sua origine. Altrimenti non si spiegherebbero le velate critiche ad una label che lo scorso anno ha fatto uscire, tra gli altri, “Fulton hill” degli Alabama Thunderpussy e “Leviathan” dei Mastodon, due luminosi e memorabili esempi di metal nudo e crudo da manuale.
Per completare un’ideale triade occorreva un lavoro che fungesse da collegamento tra il grezzo assalto dei capelloni di Richmond ed il travolgente intricato tecnicismo dei quattro di Seattle. Ad occupare quella posizione ci ha pensato uno dei più osannati guru dell’underground: Matt Pike con i suoi High on Fire.
Dopo aver raggiunto in passato i vertici dello stordimento stoner con i seminali Sleep, negli ultimi anni il chitarrista ha gradatamente spostato il suo obbiettivo musicale su una forma primeva di heavy metal, recuperando le caratteristiche di ferocia granitica ed intensità selvaggia che parvero essenziali alla nascita di questo genere.
Gli High on Fire pubblicano il terzo album confermando la loro fede incrollabile in un sound spaventosamente annichilente, che non prevede pause o cedimenti nel muro tellurico, traendo dalla sua rumorosità ininterrotta dei connotati quasi ipnotici. Se in passato Pike mesmerizzava l’ascoltatore ripetendo i riffs come mantra religiosi, ora si è creato una forma personale di narco-heavy fondata sul tappeto tribalistico realmente torrenziale dello strepitoso Des Kensel, aggiungendovi il suo rifferama spietato, sporco e granuloso che si abbevera alle fonti originarie oggi stoltamente snobbate.
Come non riconoscere la cupa brutalità dei Venom che rieccheggia nell’attacco guerresco di “Devilution” o la frenesia metallica dei Motorhead nella velocità assassina di “Cometh down hessian”, fondamenti metal inglobati e rielaborati all’interno della pesantezza monolitica che aveva caratterizzato i precedenti “The art of self defence” e “Sorrounded by thieves”. Questo è servito agli High on Fire per acquisire quel pizzico di elasticità e dinamismo che mancava loro in precedenza, rendendoli oggi una killer-machine quando si tratta di furibonde staccate Slayeriane come la monumentale “To cross the bridge” o la forsennata “Silver back”, le quali ripartono da dove si fermava “South of heaven”, ma di risultare altrettanto devastanti con un tiro più marziale e sludge, vedi “The face of Oblivion” o la title-track, immerse in atmosfere apocalittiche impregnate di sangue e morte che si evolvono perfino in sorprendenti tracce melodiche seppur di terribile drammaticità.
La rinuncia alla produzione dell’amico Billy Anderson per affidarsi all’incognita Steve Albini, più in sintonia con tematiche cerebrali come quelle dei Neurosis, si è rivelata invece vincente per un sound mai così compatto e genuinamente heavy, con le vocals abrasive di Pike finalmente in rilievo ed una precisione sonora eccellente anche nei brani più primitivi e tossici come “Anointing of seer”, stoner-sludge alla Bongzilla.
Il percorso di crescita degli High on Fire prosegue implacabile ed inarrestabile. “Blessed black wings” è un album che al primo impatto pare respingere l’ascoltatore tanto è impenetrabile la sua densità, ma non cessa di regalare vere emozioni metal al crescere dell’approfondimento, cosa che si verifica sempre più di rado ai nostri giorni. Un caposaldo contemporaneo per coloro che sono stufi di heavy metal svilito, annacquato, docile, ridotto ad un polpettone di buoni sentimenti e sonorità spuntate. Pike e compagni sono il lato buio di questo genere, la zona d’ombra dove regna ancora il caos ed il terrore, il fascino ed il brivido del metal che amiamo e che non smetteremo mai di cercare. Disco imperdibile.
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