A volte bastano i primi tre secondi di un album ad indirizzare l’ascoltatore.
Così, quei monocordi rintocchi di pianoforte che contraddistinguono l’intro
There’s Blood In Your Hands riescono da subito a condurci per mano nel dolente e rassegnato universo sonoro degli
A Swarm of the Sun.
La successiva
Infants, tuttavia, ci dimostra che non tutto è stato svelato: a differenza di quanto si sarebbe potuto credere, infatti, l’apatia del drone doom in cui il precedente
Zenith (2010) si crogiolava viene in questa sede sconfitta da timidi vagiti shoegaze, indie, dark e post rock.
Assistiamo quindi a una sorta di consesso sonoro che vede partecipare, a diverso titolo, band come
If These Trees Could Talk,
Alcest,
Sigur Rós,
Porcupine Tree,
Radiohead e
Solstafir, le quali dibattono per oltre cinquanta minuti in merito alla tristezza senza fine che attanaglia il genere umano nella sua inestricabile morsa.
Eh già, non abbiamo a che fare con un disco solare: un feeling mesto, autunnale e pregno di tragica solennità viene steso tanto sui brani più brevi o strutturalmente elementari (
The Nurse,
Years, la stessa title track) quanto su quelli più articolati (
Incarceration,
These Dephts Were Always Meant For Both Of Us), che in ultima analisi si fanno preferire in virtù di una maggior coloritura emotiva.
Parsimonioso a dir poco si rivela l’utilizzo delle vocals, che fanno capolino qua e là ed in modo del tutto residuale e subalterno rispetto al tessuto strumentale; questi, al contrario, si presenta curatissimo, colmo di suggestioni e arrangiamenti, impreziosito da una produzione di alto rango.
La proposta degli
A Swarm of the Sun, si badi, nulla o quasi ha a che fare col metal, sarà ritenuta appagante solo dai più cheti e contemplativi di voi, presenta momenti di stanca e non assurge al livello di un
Ótta o di un
Red Forest; al tempo stesso, gli amanti dei gruppi sopra citati non dovrebbero sottovalutarla per nessun motivo.
Gli altri non disperino: il nuovo
Enforcer è alle porte.
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