La “seconda opportunità” dei
MainStreet ha rappresentato per il sottoscritto una graditissima sorpresa, per certi versi inaspettata, sebbene avessi apprezzato il suo predecessore (“Back to the 80's”) e auspicato la crescita di un gruppo sicuramente promettente.
Profondamente cambiati nella
line-up (con Mauro Guarnieri e Ivan Belloni a costituire l’elemento di continuità), i milanesi tornano dopo cinque anni abbondanti di proficua “meditazione” e sfornano un saggio assai convincente di
rock melodico gagliardo, magniloquente e raffinato, ancora una volta intriso di sonorità
ottantiane, oggi però declinate in una formulazione espressiva certamente più matura ed eclettica, palesando progressi un po’ in tutti i settori, dal
songwriting alla consistenza tecnica.
Colpisce, innanzi tutto, la nuova conduzione vocale affidata all’ugola graffiante e duttile di Andrea Delsignore, capace di caratterizzare con un vigore di marca propriamente
hard-rock una serie di composizioni piuttosto avvincenti e calibrate, in cui gli arrangiamenti orchestrali di Pietro Venezia (stretto collaboratore della
band, con una lunga esperienza nel settore) appaiono come il classico valore aggiunto della situazione.
L’elegante e incisivo lavoro delle chitarre è un altro elemento di spicco di una tessitura sonora di pregio, sufficientemente varia e carismatica da non scadere mai nella “parodia” dei grandi del genere, celebrati senza evidenti tentazioni imitative.
Partenza
sprint con “Short steps” (impreziosita da un cantato che per un attimo mi ha fatto venire in mente una sorta di Gianni Nepi convertito all’
AOR!), premiata da una linea armonica diretta e dinamica, d’istantanea assimilazione, ma anche la successiva “No way” non scherza per nulla sotto il profilo “presa rapida”, insediandosi stabilmente, anche grazie a un
refrain molto vischioso, nelle sinapsi cerebrali fin dal primo contatto.
“Empty eyes”, dalle opulente stratificazioni tastieristiche, la toccante “Love can hurt you so strong” e una buona
title-track scandagliano il lato romantico dell’opera, mentre “Mark and Johnny” riprende a martellare i sensi con la spigliatezza di un
sound vivace ed enfatico (qualcosa tra certe cose degli Avantasia e i Ten …) e "Its name is …” sfrutta con buongusto la tipica ricetta del
rock adulto arioso e frizzante, puntellato da un tocco pomposo alquanto gradevole.
Dopo la graziosa
pop-song “Last day”, l’albo si chiude con un paio di episodi leggermente controversi: l’aggressività non completamente disinvolta di “What to believe in?”, che tuttavia piacerà agli estimatori degli Edguy, e la melodrammaticità di “Prayer”, pericolosamente in bilico tra intensità e retorica.
La scena melodica si arricchisce di un’altra importante, competitiva, realtà artistica, a cui manca solo un pizzico di equilibrio supplementare per mirare a una sempre più concretamente “pronosticabile” valorizzazione “definitiva”.
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