Ero tentato di non scrivere questa recensione e forse avrei fatto meglio ma alla fine ho pensato ad una sorta di omaggio verso un epoca andata a un momento della mia vita dove avevo poco ma tutto sembrava girare nel verso giusto e soprattutto avevo la musica, ora che ho di più non quadra più nulla, e non so neanche se ho più la musica.
Non sapevo nulla della band, non sapevo nulla del black, non sapevo nulla del pagan, entro per l’ennesima volta nel mio negozio di dischi preferito, mi metto a spulciare e vengo colpito da questa copertina e dall’eleganza della scritta, niente, quando mi prende cosi devo comprare e credetemi non c’è niente di meglio che comprare un disco a scatola chiusa per poterlo apprezzare veramente e capirne la portata. Il rischio deve far parte del gioco. Il primo ascolto è stato spiazzante, troppo distante dai miei ascolti abituali e poi lo screaming che non sopportavo, ma c’era qualcosa e allora via un altro ascolto e via un altro, non ho smesso più.
In Heart of the Ages c’è tutto, ma veramente tutto, credo neanche dopo un ascolto ripetuto per cento anni si riuscirebbe ancora a comprendere la portata del disco, un’opera talmente esaustiva che dopo è difficile ascoltare qualcos’altro, se non impossibile e allora con il tempo ne ho centellinato gli ascolti. Poche altre opere musicali, non solo nel genere metal, hanno la completezza e l’universalità di questo disco, che mi sarebbe piaciuto rimanesse l’unico nella loro discografia, pur considerando i successivi altrettanto dei capolavori. Tutto nella musica dei Norvegesi riporta al nostro essere all’interno della natura che ci circonda, ecco forse il messaggio principale è questo, l’uomo si pone quasi sempre come un ospite su questa terra, uno spettatore che si arroga il diritto di cambiare l’ordine naturale delle cose, mentre dimentica che è parte integrante di questo organismo e quindi gli
In the Woods… ci aiutano a ritrovare il nostro posto con la loro miscela musicale fatta, si, di black ma che guarda anche oltre verso sperimentazioni atte a rendere il tutto evocativo e adatto al messaggio che ci vogliono comunicare. Lo screaming selvaggio di Wotan’s Return per esempio non è concepito solo come violenza fine a se stessa ma utile per sottolineare i passaggi più crudi e freddi, riportando alla mente antichi riti pagani, e notti cristalline sperdute nel tempo e le urla non disturbano, anzi sono un grande complemento necessario al dissolversi dell’intera opera, che aiutano la mente e il cuore alla comprensione di un passaggio cosi profondo ed etereo come Pingeon dove una vera emozione mi coglie ogni volta all’ascolto, vetta assoluta. Anche se il miracolo era già avvenuto all’inizio con Yearning the Seed of a New Dimension, dove tra passaggi classici, suadenti melodie, accelerazioni metalliche e screaming lancinanti si entra in un viaggio del non ritorno per un’ideale crescita interiore, ci si eleva in un gradino più alto dell’esistenza grazie a uomini che l’hanno già fatto prime di te e ora ti offrono la chiave. Mentre la title track ci trasporta nel cuore pulsante della nostra vita, si perché c’è un momento in ogni esistenza dove si vive di più e quel momento condiziona tutto il resto nel passato e nel futuro e la band da dimostrazione di come si possa arrivare a spiegare tutto questo con tappeti di tastiere, voci questa volta clean, chitarre al limite del doom e un finale che sfuma tra un acustica chitarra delle parole sussurrate e la voce della natura. Cosa chiedere di più? Ma la natura è anche infinita saggezza non solo crudeltà necessaria e l’ultima traccia ci insegna che possiamo imparare da essa con la dura consapevolezza però che potremmo diventare dei Maestri, dei Dominatori, ma la Divinità in quanto tale sempre ci sfuggirà. Le note della chitarra nell’ultimo minuto e mezzo di The Divinity Wisdom ci accompagnano con vero romanticismo alla comprensione di ciò che realmente siamo.
Non vi ho parlato della band, della sua formazione, dei suoi elementi e credo di aver fatto un favore a gli In the Woods…, mai come in questo caso conta la musica, contano le emozioni di un disco unico, che nel mio mondo musicale alieno all’estremo rappresenta un’ideale summa sia per il disco in sé sia per il momento temporale in cui l’ho ascoltato, un connubio di crescita difficilmente ripetibile nelle mia breve esistenza.
Ora vi chiedo un favore, soprattutto per quelli che ancora non conoscono il disco, non ascoltatelo subito non lo sbirciate sulla rete, aspettate…..aspettate il tempo giusto….ora sapete che c’è, la vita vi dirà quando accostarvi a quest’opera, forse mai. Ma se un giorno la vostra esistenza e questo disco si uniranno, ne nascerà qualcosa che si imprimerà nel tempo all’infinito e vi renderà unici, come unica sarà l’emozione che proverete.
A cura di Andrea “Polimar” Silvestri