Uno degli aspetti che più mi affascina del metal (e della buona musica in generale) risiede nell’impagabile possibilità di chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare “altrove”, ovunque esso sia.
Universi paralleli che, seppur ispirati da melodie e arrangiamenti immutabili nella loro cristallizzazione su dischetto ottico, divengono creazione personalissima per ogni fruitore, il quale declina l’esperienza uditiva in base alla propria sensibilità e fantasia.
Talvolta, i paesaggi elaborati dalla nostra fervida immaginazione ci appariranno grigi, privi di colore o speranza; talaltra, verremo investiti da colori vivi e guizzanti; potremo trasalire vedendoci catapultati nel bel mezzo di una battaglia, fiutare le acri esalazioni provenienti dallo scantinato di un serial killer o rabbrividire percependo il gelo delle foreste scandinave che ci lambisce la pelle.
Ebbene, le smanie di escapismo che cerchiamo nel nostro genere prediletto troveranno nell’ultimo
Solefald uno sfogo senza eguali.
L’immaginario percorso che affronterete grazie a
World Metal. Kosmopolis Nord è di quelli che non si dimenticano: lo imboccherete di nuovo, di nuovo e di nuovo ancora, così da tentare di carpirne ogni minuzia e di decriptarne l’elusiva natura; rimarrete ogni volta sbalorditi dalla ripidezza e dalla complessità del tragitto, ma se siete di mentalità aperta difficilmente ve ne stancherete; infine, tornerete alla vostra vita reale con un sorriso sulle labbra e con la consapevolezza di aver appena compiuto un magnifico viaggio.
Il precedente EP
Norrønasongen Kosmopolis Nord, eterogeneo e (volutamente?) fuorviante, lasciava sì presagire una virata verso lidi ancor più anarchici, contaminati e liberi da costrizioni stilistiche rispetto al passato; eppure, un melting pot della vastità e densità di
World Metal. Kosmopolis Sud sarebbe stato impossibile da preventivare.
Parliamo di uno dei dischi più bizzarri, stranianti ed eterogenei su cui abbia mai posato l’orecchio: la particolarissima sensibilità musicale di
Cornelius e
Lazare spazia per terre (le registrazioni sono state effettuate in
Norvegia e
Tanzania, le lyrics si servono di vari idiomi), collaborazioni (citiamo
ex multis Baard Kolstad -
Borknagar- e
Sindre Nedland degli
In Vain), e generi (death, world music, elettronica, folk, tribal, progressive rock, industrial…), dando vita ad accostamenti tanto arditi che solo musicisti di calibro superiore potrebbero concepire senza dar vita ad un pretenzioso guazzabuglio.
Di certo non si tratta di un platter immediato -non osate giudicarlo prima di averlo ascoltato almeno quattro/cinque volte-, perfetto o adatto a tutti i palati; d'altra parte, rimango convinto che ci troviamo di fronte ad uno di quei rari casi in cui un’opera porta con sé una dote di innovazione, fantasia e genialità tale da acquisire vita propria, divenendo un
unicum nell’asfittico panorama musicale odierno e rifuggendo appartenenze a sterili categorizzazioni e, per paradosso, ai propri stessi creatori.
Esattamente come grandi capolavori avantgarde del passato che ancor oggi brillano di luce propria, come
La Masquerade Infernale,
Written in Waters,
666 International o
Omnio.
“...
il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "non c'è altro da vedere", sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l'ombra che non c'era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre.”
Mio caro
José Saramago, hai proprio ragione: schiaccio di nuovo il tasto play.