“
Gli errori, come pagliuzze, galleggiano alla superficie; chi cerca perle deve tuffarsi in profondità”.
John Dryden, 1677
Il drammaturgo inglese aveva tentato di avvertirmi, e invece niente da fare: ci sono cascato con tutte le scarpe.
Di tuttologi saputelli in giro per la rete ne potrete trovare a frotte (sulle webzine metal, poi, tracimano letteralmente), per cui ammetto col candore di un infante che l’esistenza dei
The Duskfall mi era ignota sino a quattro giorni fa.
Nonostante ciò, da amante della prim’ora del melodic death metal, genere che non è invecchiato benissimo trasfigurandosi troppo spesso in infauste sotto-branche (emo, *core e robaccia simile), ma che di tanto in tanto sa ancora dimostrare il proprio valore, ho deciso di lanciarmi nel buio e curare la recensione di questo
Where the Tree Stands Dead.
Mal me n’è incolto: la speranza di venir investito da trame chitarristiche impetuose quanto attente alla costruzione armonica, dall’inarrestabile tupa-tupa di qualche novello
Adrian Erlandsson e da melodie imbibite di solennità e nostalgia -il melodeath ha scollinato da un po’ i vent’anni di esistenza, a pensarci mi sento un matusa-, ahimè, si è infranta troppo presto.
Sono bastati pochi attimi dell’opening track a smorzare ogni aspettativa: traccia aleatoria e priva di mordente,
To the Pigs mette da subito in mostra alcune criticità per me insormontabili: influenze hardcore d’accatto, tendenze finto-moderniste volte alla spasmodica ricerca del groove e deficitaria impostazione vocale del singer
Magnus Klavborn (che però ha un gran bel nome), il quale si limita perlopiù a sbraitare dietro a un microfono cercando d’imitare l’ormai miagolatore seriale
Fridén, mantenendosi così a siderale distanza da ciò che può propriamente definirsi growling.
Con la successiva
Farewell va un po’ meglio, in virtù del riffing rotondo preso gentilmente in prestito dagli
In Flames (tanto a loro non serve più…); benino anche la title track e
Burn Your Ghost, quantomeno piacevoli all’ascolto; peccato siano circondate da episodi utili quanto un telescopio piazzato in uno sgabuzzino (
I Can Kill You,
Endgame,
The Charade,
Travesty) e da altri semplicemente incresciosi (
We the Freaks, messa in ginocchio da clean vocals che giustificherebbero appieno l’apertura di un procedimento penale, e
Hate Your God, la cui strofa infastidisce oltre ogni dire).
La verità è che ai
The Duskfall manca classe, qualità, carisma e personalità per competere ad alti livelli: non basta un chorus catchy per fare una canzone, né un modicum di aggressione sonora buttata lì per compiacere i deathsters; parimenti, non è sufficiente richiamare gli stilemi compositivi di -un tempo- grandi band per emularne le gesta.
Ora perdonatemi ma prendo congedo: sento l’insopprimibile esigenza di riascoltare l’intera discografia degli
Insomnium per rimediare all’errore.
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