“Armageddonize” prosegue il ciclo creativo di una delle
bands di
hard melodico maggiormente acclamate dei nostri tempi e consente agli
Eclipse di continuare tranquillamente a risiedere di diritto in quell’
Olimpo ove albergano le divinità del settore, molte delle quali ben più “esperte” dei nostri formidabili svedesi (nemmeno loro proprio dei “pivellini”, invero!).
Raggiungere questo diffusamente riconosciuto
status d’assoluta eccellenza è un’impresa riuscita a pochissimi eletti, e tra i tanti meriti di Erik Mårtensson e dei suoi
pards va sicuramente sottolineata con la matita rossa la capacità di mettere d’accordo un po’ tutti gli estimatori del genere, “nostalgici” o “modernisti”, uniti in una forma d’ammirabile devozione che però talvolta, ammettiamolo, sfocia, in manifestazioni di pura pretenziosità.
Equilibrio, sintonia e notevole cultura, assieme a dosi sproporzionate di classe, rappresentano l’arma in più di questo gruppo capace di sfornare l’ennesimo prezioso tassello di una discografia in crescendo e che con il precedente “Bleed and scream” ha espugnato una vetta artistica oggi probabilmente non superata dal nuovo albo, il quale, tuttavia, deve essere accolto alla stregua di una grande vittoria, tenendo conto di quanto è difficile confermarsi a certi livelli.
E allora non resta che godere della luce intensa emanata da queste brillanti radiazioni armoniche, riempirsi i polmoni di quello stesso tipo di ossigeno contenuto nelle opere di Europe, TNT, Whitesnake e Dokken, qui combinato con una miscela di freschezza e carattere, un gas nobile che non è per nulla semplice da recuperare “nell’ecosistema” della musica contemporanea.
Dopo la breve
intro, “I don’t wanna say I’m sorry” con il suo fraseggio serrato costituisce un’apertura di grande presa, corroborata da una scintillante “Stand on Your Feet”, in grado di abbinare architetture sonore “classiche” e tocco attualizzato, a riprova di un gusto melodico versatile e sempre vincente.
Il coro dell’agrodolce “The storm” è uno dei momenti più accattivanti del programma, “Blood enemies” svetta come potrebbe farlo una fusione tra Whitesnake “americani”, Magnum e Thin Lizzy, mentre i sublimi toni pomposi di "Wide open” (pezzone!) esortano un’ineluttabile
standing ovation.
“Live like I’m dying” sfrutta un’architettura vagamente alla “Frozen” (magari nella versione dei Talisman) per sollecitare gli animi più sensibili, l’ardore
bluesy di “Breakdown” piace senza strabiliare (anche questa è una notizia …), cosa che invece fanno la contagiosa "Love bites” e la cadenzata “Caught up in the rush”, due gioiellini di tensione comunicativa e di fine dicitura strumentale.
Chiusura riservata a una buonissima ”One Life – My Life”, un altro evidente esempio di
class-rock “al passo con i tempi” e alla cromata e
power-osa “All died young”, uno di quei
cliché d’insigne fattura che non passano mai di moda.
La sfida con i compagni di etichetta Revolution Saints per l’egemonia dei miei ascolti continua da giorni … peccato che la contesa non possa continuare sul palco del Frontiers Rock Festival, dove sono attesi (al momento in cui scrivo, almeno …) solo gli Eclipse … sarebbe stato bello assistere in diretta a tale “scontro tra titani”, con un unico vincitore … i sensi degli
chic-rockers, fatalmente estasiati di fronte a tanta opulenza.