Quando mi appresto a recensire il lavoro di un gruppo che, per la sua manifestazione artistica, si rivolge esplicitamente alle grandi icone della storia del
rock, e sono pronto a tesserne le lodi, mi assalgono sempre dubbi e paranoie assortite.
Come giustificare considerevoli dosi d’entusiasmo per una musica all’insegna del
revival (termine molto caro ai protagonisti di questa disamina, peraltro …) più sfacciato?
Non sarebbe forse meglio raccomandare al lettore di rivolgersi indistintamente ai classici del genere, affidandosi magari a un doveroso “ripasso” della propria fedele collezione discografica e, così facendo, ricavarne pure ovvi benefici sotto il profilo squisitamente finanziario?
Un suggerimento assennato, probabilmente … ma siccome la
passione è notoriamente nemica del
raziocinio, non credo riuscirò mai a smettere di incensare formazioni che ritengo degne dei loro imprescindibili numi tutelari e consigliarle a chi è in grado di cogliere lo “spirito” dell’operazione, andando oltre la sua esposizione esteriore.
E allora ecco che i
The Answer, nel marasma di quelli che non “inventano nulla”, emergono come uno dei pochi a saperlo fare veramente bene, aggiungendo a una perfezione formale nella “riproduzione” stilistica anche una naturalezza e una forza espressiva immaginifiche e catalizzanti.
Una “roba”, insomma, che ti fa illudere che il mondo sia ancora ispirato da ideali di libertà e non costretto alla rassegnazione, che tra gli anglicismi più diffusi ci siano
Long Playing,
roadie,
groupie,
rock n’ roll e
kids e non solo
jobs act,
briefing,
twitter,
facebook e
managers. Un universo di emozioni autentiche e “fisiche”, di gente che s’incontra per condividere le sensazioni che sanno regalare un disco o un concerto, e in quell’atmosfera magica intrisa di
patchouli, adrenalina, ferormoni, fumo (magari anche di qualche sostanza non “proprio” legale …) ed elettricità, vive un’esperienza intensa, di quelle in grado di scatenare una generosa produzione di endorfine.
Con suggestioni del genere, non è poi molto importante se a volte aleggiano ricordi di leggendari viaggi esotici e di una certa
Donna di Tokyo, se si riesce a scorgere la sagoma maestosa di un inconfondibile
Dirigibile oppure è abbastanza agevole individuare gli stessi ingredienti, opportunamente rimescolati, della succulenta ricetta della
Torta Umile.
In tale situazione, anche la materializzazione delle esili fattezze di una non meglio identificata
Lizzy (lo so che la denominazione in questione ha altre origini e tuttavia a me piace pensare che tutto sia nato grazie a una’enigmatica figura femminile …), i vaghi accenni a
Tom Sawyer canadesi e le predilezioni per l’approccio viscerale di un manipolo di scapestrati
australo-scozzesi, non appaiono per nulla ingombranti, e si collocano con semplicità all’interno di una visione unanime del concetto di melodia vincente e di “buone vibrazioni”.
Ok, a ben sentire, talvolta l’incantesimo vacilla, a causa di qualche eccessiva patinatura (qua e là affiorano addirittura gli U2 …), ed è abbastanza evidente che la sana irruenza dei primi tempi si è stemperata in una maggiore “consapevolezza” delle regole del
music-biz, eppure è davvero difficile non lasciarsi stregare da queste “belle canzoni”, figlie di una maniera “classica” d’intendere l’arte e non per questo prive della necessaria vitalità.
In conclusione, andate pure a rispolverare i grandi nomi del genere (colmando eventuali lacune non edificanti per ogni
Glorioso che possa definirsi tale …) e poi però procuratevi anche “Raise a little hell” e ascoltatelo attentamente (possibilmente più volte, e non affrettate i giudizi,
guys …
oibò, questo sì che un consiglio saggio!) … scoprirete quante sono le cose in comune tra questi ragazzacci irlandesi e i loro maestri … e non parlo soltanto del modo in cui vengono accuratamente disposte le note su di un pentagramma.