Ho i nervi a fior di pelle e il mio primo comandamento in questa recensione sarà quello di evitare, per quanto mi è possibile, di scadere nell’insulto e nel turpiloquio più becero. Partiamo dal promo in mio possesso e dai trucchetti che la Metal Blade per evitare che questo disco sia piratato. All’inizio c’erano i promos monchi, solo un minuto di ogni canzone, poi si passò a mettere solo una parte delle canzoni e non la tracklist completa, ora se ne sono inventati un’altra. Hanno messo tutta la tracklist, solo che ad ogni maledetta canzone arriva uno speaker a ricordarci che questo è “13” il nuovo fottuto album di quei stramaledetti Six Feet Under e che esce il 21 Marzo 2005!!! Che nervoso!
Il ponte ideale tra questa premessa e la vera recensione è solo uno: ma chi mai può essere interessato a scaricare questa vera merda? Eccoci così arrivati a parlare di “13”. Il precedente “Bringer Of Blood” mi aveva abbondantemente stomacato, e con me molti altri. Così Chris Barnes e soci hanno cercato di confondere le acque, cercando di correggere il tiro ma non troppo. I 36 minuti di “13” sono un mid-tempos continuo, con qualche sporadica accelerazione, dove l’unico pregio è il groove cadenzato, e dove si sfiora il ridicolo con songs elementari, le quale sono camuffate da songs complesse con il banale e posticcio tentativo di renderle golose con qualche patterns ritmico, soprattutto di batteria, un po’ più complesso, o sarebbe meglio dire meno ordinario, oppure con patterns quadrati che fanno tanto techno-death d’accatto.
Chris Barnes si è dimenticato che il death metal è voglia di uccidere, death metal ti deve spaccare il culo, si è dimenticato di quando cantava “Fucked With A Knife” o “Hammer Smashed Face”, e oramai ci ammorba con quello che talvolta sembra death’n’roll, rigorosamente di infima categoria, con una produzione dello stesso Barnes, la quale ha praticamente affossato il suono di chitarra, rendendolo piatto nel tentativo di guadagnare in groove, cosa riuscita, ma a che serve il groove se il disco non spacca il culo? Le poche accelerazioni dove sembra che la band si svegli da un torpore atavico, per devastare i nostri padiglioni auricolari, sono comunque banalizzate da una pochezza compositiva imbarazzante. Tra le altre cose, questo disco vorrebbe tributare quelli che sono i capolavori di inizio anni ’90, i quali avevano un punto di forza nella loro “ignoranza”, ma qui c’è solo pallida e preconfezionata imitazione, col risultato che, invece di suonare genuinamente “ignoranti”, suona tutto finto. Vogliamo parlare della voce di Barnes? Una volta si limitava a grugnire disarticolatamente, ora invece vorrebbe articolare interi poemi in growl, col risultato che le sue leggendarie vocals oramai non impressionano più nessuno, concentrate come sono a cantare quando invece una bella serie di rutti sarebbe più espressiva. Prendiamo la title-track come esempio lampante di questo ennesimo scempio targato Six Feet Under, una noia mortale, banale, ridicola, rotta solo dall’intervento dello speaker che quasi quasi è più interessante della canzone, anche se è la quinta volta che dice la stessa cosa.
Un picco di attenzione questo disco lo guadagna solo nella parte centrale con “Shadow Of The Reaper” e “Deathklaat”, ma non perché muti qualcosa nel desolato sound della band, ma solo perché i quattro ex-deathsters (oramai) sembrano metterci più cattiveria e intensità, rigorosamente simulate, ovviamente.
Insomma è ora che questa gente inizi a fare sul serio, è ora che decida cosa fare da grande, è ora che si diano una sveglia, siamo stanchi di farci prendere in giro da loro e dalle loro cazzate. Loro che affermano di “avere avuto visioni e di avere composto questo disco attraverso la meditazione e un sacco di marijuana, fino a sviluppare un terzo occhio interno”. Ma andate a fare in culo, voi e chi non ve ce manda.