I
Mother’s Finest sono una delle mie tante passioni “giovanili”.
Ho sempre adorato il loro essere “fuori dagli schemi”, in periodi in cui ostentare tale caratteristica era sicuramente indice di una personalità forte e audace, molto più di quanto accade oggi.
Troppo “nero” per il
rock, troppo “bianco” per il
funk (tanto da intitolare uno dei suoi lavori più riusciti “Black radio won't play this record”) il collettivo di Atlanta ha saputo superare le convenzioni e mescolare con abilità e sagacia
hard e
black music, diventando uno dei pionieri del
funky-metal, sfornando una discografia complessivamente piuttosto avvincente (vi consiglio soprattutto “Iron age”, oltre al già citato albo del 1992), scontando solo qualche calo di tensione, quasi inevitabile all’interno di una parabola artistica ultra-quarantennale.
Accolgo, dunque, il nuovo “Goody 2 shoes & the filthy beasts” con grande entusiasmo e anche se i tempi sono cambiati e il loro
meltin’ pot sonoro è ormai stato ampiamente sdoganato, è sempre un piacere ritrovare i membri originali Joyce Kennedy, Glenn Murdock, Wyzard e Moses Mo in eccellenti condizioni di forma, supportati nell’impresa da John Hayes e Dion Derek, ormai da “qualche” tempo un adeguato complemento alla storia della
band.
Baby Jean è ancora una tigre capace di graffiare e fare le fusa, Doc è costantemente la sua degna controparte e il resto della formazione macina
riff, elettricità e pulsazioni ritmiche con grande disinvoltura, rendendo ancora una volta il
sound quel fascinoso “bastardo” che abbiamo imparato ad amare in tutti questi anni.
Qualche episodio è, invero, un po’ troppo compiacente, altri non saranno esattamente adatti ai palati dei “metallari”, ma sono certo che "Angels", “Shut up”, “She ready”, “My badd” e magari pure il
soul n’ blues pingue di “ Cling to the cross”, potranno essere apprezzati, oltre che dai
fans dei Mother’s Finest, felici di trovare il loro tipico
trademark integrato di una considerevole dose di “freschezza”, anche da chi, per esempio, si dichiara estimatore di certe cose di Glenn Hughes o Jeff Scott Soto.
La notturna “Another day” e la spigliata “All of my life” hanno un discreto
appeal radiofonico, “Tears of stone” stimola importanti piloerezioni, mentre leggermente più “indigeste” appaiono “I don’t mind” e “Take control”, tra purezze
funky e bizzarrie elettroniche.
Conclusione riservata, in forma di
live bonus track, alla scalciante “Illusion” (da “Iron age”) e alle
cover di "(I can’t get no) Satisfaction” e “Born to be wild”, ad illuminante dimostrazione di quanta energia sia in grado di produrre questo esuberante collettivo su di un palcoscenico (per ulteriori referenze non mancate “Live” del 1979 e “Subluxation” del 1990).
In assoluto, forse, non il loro lavoro migliore e tuttavia un buon disco, utile, eventualmente, anche ad approfondire le origini del
crossover e a ricordare ai “distratti” che gente come Living Colour e Red Hot Chili Peppers non nasce dal nulla.