Bah.
Questa la profondissima ed elaborata riflessione suscitatami dal nuovo full dei
Secrets of the Sky.
Allorquando recensii l’esordio
To Sail Black Waters (2013) rimasi piacevolmente sorpreso dalla mistura sonora che la band di
Oakland era riuscita ad elaborare. Mistura per sommi capi inquadrabile alla stregua di un doom “moderno”, dalle tinte estreme e prog al tempo stesso, capace di unire in brani -lunghi ma mai noiosi- aggressione, introspezione, impatto emotivo e cura certosina per l’arrangiamento.
Qualche prolissità di troppo e una certa artificiosità di fondo non impedivano certo al predetto debut di lasciar intravedere doti notevolissime, tanto da farmi pronosticare per il giovane sestetto (oggi un quintetto: il terzo chitarrista
Chris Anderson ha abbandonato la nave lo scorso anno) un futuro da grandi protagonisti del nostro genere favorito.
Ora, dopo numerosi ascolti di
Pathway, dubito di aver azzeccato la previsione.
Si badi: non parliamo affatto di un brutto lavoro. Semplicemente, la progressione che mi sarei atteso non è arrivata; anzi, a mio avviso si è registrato un piccolo passo indietro.
Dove rinvenire profili d’insoddisfazione nel nuovo parto discografico dei Nostri?
Non certo nella produzione (curata dal gruppo stesso assieme a
Juan Urteaga) bilanciata alla perfezione e spettacolare nel trattamento riservato alla sezione ritmica.
Nemmeno nell’esecuzione, posto che parliamo di musicisti davvero preparati e di un cantante,
Garett Gazay, in grado di padroneggiare clean vocals, scream e growl con impressionante sicurezza.
Né, da ultimo, nell’originalità intrinseca della proposta: in giro per la rete ho letto i riferimenti stilistici più disparati (
Porcupine Tree,
Katatonia,
My Dying Bride,
Agalloch,
Anathema…), ma la verità è che ai
Secrets of the Sky va riconosciuto il merito di aver plasmato un trademark piuttosto unico e riconoscibile.
Purtroppo, a latitare sono elementi quali:
- la dinamica delle composizioni, meno imprevedibili che in passato e spesso afflitte da una eccessiva staticità melodica;
- la costanza nel songwriting, che decolla solo nella seconda metà del platter, dopo una prima parte che riserva più di uno sbadiglio;
- la fluidità della tracklist, continuamente spezzettata da brevi intermezzi “ambientali” (ben sette tra rumori di onde, fiamme, tuoni, passi, sussurri
et similia), che aiuteranno forse a corroborare il concept lirico, ma che finiscono per frammentare troppo l’esperienza uditiva senza apportare particolari spunti d’interesse.
Peccato: brani come la mistica
Garden of Prayers o la possente
Fosforos mi fanno ancora pensare che la scommessa sui
Secrets of the Sky non sia persa.
Per evitare di piombare nell’underground più abissale, però, i Nostri dovranno estrarre dal cilindro un terzo full lenght di assoluta eccellenza.
Io ci credo.
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