Mai come in questo caso, il ruolo di scribacchino musicale appare ai miei occhi banale quanto la trama di un film di
Chuck Norris (senza offesa
Chuck, non picchiarmi).
Talmente banale che, in barba ai soliti preamboli con cui son solito infarcire gli incipit delle mie recensioni, intendo giungere immantinente al nocciolo della questione:
I
Cradle of Filth vi hanno sempre fatto schifo?
Continueranno a farlo anche da oggi in poi.
I
Cradle Of Filth vi hanno sempre mandato in brodo di giuggiole?
Quest’album costituirà per voi inesauribile fonte di libidine.
L’articolo potrebbe anche concludersi qui, ma pagherò dazio alla mia pedanteria esponendovi qualche spunto di riflessione ulteriore.
Ecco a Voi, cari lettori:
- il giorno in cui Dio, o Lucifero, convocò a sé le band metal per conceder loro il dono della “continuità di line up”, i
Cradle si diedero ammalati.
Ormai gli avvicendamenti in seno al gruppo non si contano più, presumibilmente a causa del caratterino del boss
Dani Filth. Stavolta, però, le incognite erano molte e belle grosse: da un lato l’ingresso di ben tre (!) nuovi membri, dall’altro il vistoso avvicendamento del chitarrista
Paul Allender, che aveva suonato sullo storico debut
The Principle of Evil Made Flesh ed era tornato poi in sella per altri 14 anni e ben 7 album. Ebbene, proprio il povero
Paul sembra uscir sconfitto da questo scambio di mercato: il suo progetto
White Empress, infatti, ha generato un platter (
Rise of the Empress, 2014) scialbo e già avvolto nelle meste spire dell’oblio, manco fosse
Zucchero Filato Nero di
Mauro Repetto. Dall’altro lato, la nuova coppia di asce costituita dai baldi
Rich e
Ashok sembra essersi già calata alla perfezione nell’ingranaggio cradleiano; lo stesso può dirsi della dolce (?)
Lindsay, che si destreggia senza affanno con keyboards e vocals femminili (come si sa, elementi di centrale importanza nell’economia del sound);
- un sostanzioso aiuto alla resa complessiva la fornisce la produzione. Le sessioni di registrazione nei britannici
Grindstone Studios, infatti, hanno saputo donare ad
Hammer of the Witches un amalgama invidiabile, mantenendo un’asciuttezza lodevole ed evitando ampollosità eccessive;
- il nuovo platter non tenta nemmeno di cambiare le carte in tavola; al contrario, ripropone con precisione chirurgica tutti i tratti distintivi cui i
Cradle ci hanno abituato, nel bene e nel male. Non innovativo, non originale, assemblato con una buona dose di mestiere, per certi versi anche paraculo (perdonate la terminologia inappropriata), eppur bilanciato alla perfezione. Trovo che proprio il bilanciamento costituisca l’autentico valore aggiunto di un’opera in perenne bilico tra componente metal e sinfonica, tra aggressione e melodia, tra solennità e rudezza. Ciò, si badi, vale tanto per il disco nel suo complesso quanto per le singole canzoni;
- a proposito di canzoni: la scaletta, per quanto mi riguarda, è davvero solida, se si esclude un’intro sinfonica meno ispirata del solito e un interludio -
The Monstrous Sabbat (Summoning the Coven)- trascurabile anzichenò. La qualità, per il resto, si mantiene alta, anche in virtù dell’assennata decisione di rievocare le atmosfere romantico/decadenti proprie dell’immenso
Dusk ... And Her Embrace.
Volendo proprio scegliere, mi soffermerei sulla magnificenza della
title track, sull’epicità forsennata di
Deflowering the Maidenhead, Displeasuring the Goddess e sul lascivo incedere di
Blackest Magick in Practice;
- a questo giro mi aggrada anche l’artwork di copertina, circostanza che non si verificava dal lontano 1998 (
Cruelty and The Beast). Dettaglio non decisivo, ma che non guasta. Bravo
Arthur Berzinsh!
Dopo lo sperpero di righe che precede, tanto vale far ritorno al punto di partenza: se rientrate nel folto novero di detrattori del minuto
Danielino, presumo non siate nemmeno giunti sin qui nella lettura. I restanti sappiano che
Hammer of the Witches, a sommesso parere dello scrivente, ci restituisce una band in uno stato di forma che non si ammirava di tempi di
Midian (2000).
Di più credo non si possa chiedere.