Ascoltando i Sons of Otis è facile sbizzarrire la fantasia in un immaginario legato allo spazio: pianeti extrasolari, supernovae, worm-holes, entità aliene e quant’altro, quasi che questo gruppo inviasse i suoi segnali alla terra da remote zone della galassia. Invece il cult-trio vive nella tranquilla Toronto, in Canada, e da oltre una dozzina d’anni porta avanti ostinatamente il proprio progetto heavy alternativo e senza compromessi, pubblicando appena quattro albums (con questo..) per quattro labels differenti e cambiando una ventina di batteristi, esperimenti con la drum machine compresi.
Una formazione particolare, com’è particolare il suo sound destinato a dividere gli ascoltatori in due distinte categorie: gli entusiastici adoratori e gli inorriditi detrattori. La musica dei Sons of Otis infatti non lascia indifferenti, o piace o si rifiuta in blocco. Il loro è un singolare heavy-doom psichedelico prettamente jammistico, lunghi calvari sonori dove i riffs vengono ripetuti ad oltranza per creare quell’effetto trance-ipnotico che è il fine ultimo di questo genere musicale. Atmosfere gelide ed oscure ispirate alle immense vastità siderali, brani torbidi ed ossessivi dai quali sembrano emergere angoscianti minacce ed un senso di solitudine disperata. E’ un incesto tra il greve sludge monolitico e le allucinate visioni heavy-psych, un sound aspro e melmoso ma allo stesso tempo dal forte feeling cosmico, che avvolge e stravolge fino alle fondamenta perfino un vecchio e onesto hit rock come “The pusher” degli Steppenwolf.
La caratteristica che distingue il trio canadese da altre formazioni del genere sono le esasperate varianti “space” che contrastano l’incedere solido e terreno. E’ l’ispirato Ken Baluke a scatenare la sua chitarra in torrenziali trip grondanti riverberi e distorsioni, rovesciandoci sopra lunghe e narcotiche cantilene cariche di echi, con un risultato a tratti di vero stordimento sensoriale. In questo e nella massiccia corrente psichedelica che si viene a creare, ci sono analogie con i nostri Ufomammut, i quali restano comunque assai più articolati e fantasiosi nella sperimentazione. I Sons of Otis sembrano invece completamente a loro agio in una certa semplicità di base, valga come esempio l’orgia strumentale “Liquid jam” che in pratica si basa interamente sul delirio solistico di Baluke, il quale alterna fasi dilanianti ed esplosive a pause rarefatte ed oniriche, per un quarto d’ora di totale deragliamento da far invidia agli Sleep più fumati.
Inutile dilungarsi oltre su un lavoro che a mio avviso può trovare estimatori entusiasti tra i fans delle soluzioni più eccessive e dilatate come Yob, Negative Reaction, Colour Haze, Gas Giant, e così via. Tutti gli altri, legati agli schemi tradizionali, rischiano di trovarlo mortalmente noioso.
Per chi, come me, è abituato a questo tipo di sound, bisogna riconoscere che i Sons of Otis hanno realizzato un album dall’effetto lisergico non indifferente e pur risultando un po’monotematici e limitati nelle soluzioni, non sfigurano tra le nuove leve dell’acid-heavy contemporaneo.
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