Ok, sedetevi tranquilli (oppure abbandonate subito la lettura …) … vi avviso che qui la questione sarà inevitabilmente “lunghetta” e tutt'altro che freddamente analitica.
Adoro letteralmente gli Angel. Li ho venerati fin dal primo contatto (ispirato dal vate assoluto del giornalismo
metallico italico,
Sir. Beppe Riva, che non smetterò mai di ringraziare!), autentici “faraoni in seta bianca”, splendidi e tirannici artefici di quel suono paradisiaco passato alla storia con la denominazione di
pomp-rock, alla cui edificazione stilistica hanno fattivamente contribuito al fianco degli altrettanto strepitosi Kansas e Styx.
Come poter rimanere impassibili di fronte agli scintillanti tasti d’avorio di Gregg Giuffria (impossibile non citarlo per primo, dacché il sottoscritto ai tempi covava velleità di tastierista, per fortuna, vista la pochezza dei risultati, prontamente accantonate …), alle chitarre affilate ed evocative di Punky Meadows, alla ferrea sezione ritmica formata da Barry Brandt e Mickey Jones, il tutto strepitosamente coordinato dall’intonazione stentorea ed emozionante di
Frank DiMino? Ascoltate anche solo una volta un brano leggendario come “Tower” (e potremmo, altresì, citare in ordine sparso pure “Long time”, “Broken dreams”, “Mirrors”, “The fortune”, “Can you feel it”, “White lightning”, “Don’t leave me lonely”, “Wild and hot” … e chissà che un giorno non ci sia il tempo per approfondire meglio la parabola artistica del gruppo …) e solo qualora siate affetti da
otopatologie degenerative non riuscirete a riconoscere tra quelle torreggianti note le stimmate di un vero “classico” del
Rock.
Frank DiMino è, dunque, uno dei miei (tanti) eroi personali, uno di quelli per di più non adeguatamente celebrati, nonostante il successo e le qualità “pionieristiche” di una
band fondamentale nell’evoluzione della musica elegantemente vigorosa.
Ritrovarlo nel 2015 a debuttare con un albo solista è da annoverare con certezza tra le molte esperienze “piacevolmente ansiogene” a cui ci ha abituato la discografia attuale, fatalmente combattuti tra i desideri del “vecchio fan” e il timore di vederli disattesi da una prestazione opaca o eccessivamente manieristica.
Con un titolo come “Old habits die hard” e la presenza (assieme ad una pletora di
special guests) di Meadows e Brandt (co-autore di “Even now”), la faccenda si “complica” ulteriormente, ma diciamo subito che non siamo di fronte ad un lavoro oltremodo autoreferenziale.
Anzi, quando attacca “Never again” i primi a venirmi in mente sono Deep Purple, Legs Diamond (un altro monumento poco considerato dell’
hard yankee), il MSG e gli UFO (e forse giova ricordare che DiMino ha partecipato all’effimero e non esaltante Paul Raymond Project), allontanando fin da subito lo spettro di un
revival acritico delle gloriose vicende del nostro.
Il pezzo ha un bel “tiro”, la melodia è piuttosto catalizzante, l’ugola di Frank è in buone condizioni di forma (rivelando oggi persino alcune “inedite” sfumature Byford-
iane!) e le similitudini
Angeliche, qui come in gran parte del resto del programma, si limitano eventualmente ai momenti più tipicamente
hard-rock della formazione americana (
cfr. “On Earth as it is heaven”, per esempio), evitando in ogni caso di affidarsi a fastidiosi eccessi d’ispirazione.
“Rocking in the city” prosegue sulla medesima falsariga, piazzando un
refrain dalla ricezione immediata, mentre le tastiere, le cadenze e il
groove canoro di “I can’t stop loving you” cominciano a sollecitare qualche “brividino” supplementare agli estimatori di “Angel” e “Helluva band”, che non potranno che apprezzare anche la passionale “Even now” e la melodrammatica "Tears will fall”, un gioiellino di magniloquenza e tensione espressiva.
In mezzo e dopo questi momenti di pura delizia sonica, buone vibrazioni arrivano dall’afflato notturno e
bluesy di “The rain’s about to fall”, dalla frenetica “Mad as hell”, dall’incontro tra AC/DC e Bad Company denominato “Sweet sensation”, dalla
rollistica “Tonight’s the night” e dalla
gospel-esque “Stones by the river”, tutto materiale di pregevole fattura sebbene non esattamente “inebriante”.
Una scossa leggermente più intensa la riserva l’incalzante “The quest”, gratificata da un
break pomposo di notevole suggestione.
Arrivati alle valutazioni conclusive, alla soddisfazione per il ritorno di una grande voce del settore, tanto sagace e virtuosa da evitare sterili riciclaggi, si contrappone un
songbook non sempre attrezzato, in fatto di vitalità e facoltà comunicative, ad affrontare adeguatamente l’impegnativa sfida della “scena” contemporanea.
Bentornato Frank … ora però da te mi aspetto di meglio.