Ci sono diversi gruppi, nella storia del rock e del metal, che, nel bene e nel male, sono stati indissolubilmente condizionati da un loro album. Gruppi che dopo aver pubblicato un capolavoro hanno vissuto l’intera carriera alla sua ombra, cercando invano di ripetere quella formula magica, senza riuscirci, trascinandosi, tra alti e bassi, per anni ed anni nell’attesa che qualcosa potesse succedere per ricreare la giusta alchimia che da un giorno all’altro li aveva portati al successo. È il caso anche dei
Fear Factory…
Era il 1995 quando la band di Los Angeles dà alle stampe il suo secondo lavoro in studio. Il titolo dell’album è “Demanufacture”, e dal momento della sua uscita ha rivoluzionato profondamente il concetto stesso di metal estremo. Il death delle origini si sporca di suoni freddi, industriali, le ritmiche diventano chirurgiche e le chitarre sempre più assassine. Non sta a me, in questa sede, parlare di uno degli album seminali della storia del metal, ma questo preambolo mi serviva per farvi capire meglio come è stato concepito “Genexus”, il nuovo full length di Cazares e soci. Dopo aver programmato un tour commemorativo proprio di “Demanufacture”, evidentemente più o meno inconsciamente una volta entrati in studio i nostri hanno provato a bissarne la formula magica, ovviamente senza riuscirci. Diciamolo chiaramente e senza girarci troppo intorno: “Genexus” è una copia sbiadita di “Demanufacture”!
Con diversi album all’attivo, alcuni riusciti meglio (“Obsolete”, “Archetype”), altri meno (“Trasgression”, “Digimortal”), i Fear Factory si sono trascinati per 25 anni attraversando non pochi problemi, soprattutto di line up. “Genexus” è il terzo album pubblicato dopo la riappacificazione tra Cazares e Bell, e se “
Mechanize” aveva convinto, già “
The industrialist” lasciava intravedere diverse pecche. Cosa fare di meglio, allora, che cercare di cavalcare di nuovo l’onda che venti anni fa li aveva portati al top della scena estrema mondiale? Il problema è che tra le intenzioni e i fatti il passo è lungo, ed è per questo che la nuova fatica della band scivola via senza lasciare quasi nessuna traccia tangibile.
La sensazione di deja vu ci assale fin dalle prime note, ed è subito evidente quali siano le intenzioni del corpulento chitarrista. La struttura stessa dell’album ricalca quella del suo fortunatissimo predecessore (compreso “Expiration date”, il pezzo lungo, lentissimo e paranoico posto in finale), senza però riuscire a brillare della stessa luce. A poco vale l’ottima prova dietro le pelli di Mike Heller se poi le idee latitano e la voce di Burton C. Bell non riesce a infastidire e colpire duro come una volta. Ma la cosa peggiore sono le autocitazioni, soprattutto per quanto riguarda i refrain e le melodie vocali in generale (l’opener “Autonomous combat system” può valere come esempio lampante per quasi tutti i brani…).
E qui si torna all’inizio della recensione. Il valore assoluto di “Genexus” non è basso. Se ascoltate la band per la prima volta con questo album resterete sicuramente colpiti positivamente. I brani funzionano, pestano duro, etc… Il problema si pone se siete ascoltatori un po’ più attempati, perché in questo caso il paragone è non solo inevitabile, ma anche ingiurioso. In definitiva, un album pieno di luci ed ombre, a seconda dell’angolazione dalla quale deciderete di guardarlo. A voi la scelta finale, per quanto mi riguarda la sufficienza è abbondante più per la simpatia che provo per la band che per altro…
Non è ancora stata scritta un'opinione per quest'album! Vuoi essere il primo?