Un paio di anni fa gli esordienti
Rivers of Nihil cominciarono la loro avventura discografica con parecchie frecce al loro arco: una grande etichetta come la
Metal Blade, un artwork d'effetto opera del maestro
Dan Seagrave ed una produzione curata da
Erik "fronte sfrontata" Rutan. Il bersaglio non fu completamente centrato e a fronte di un grosso impegno, il risultato finì per essere solamente quasi discreto, complice una personalità da costruire ed una direzione da trovare con sicurezza.
Continuando il loro concept sulle quattro stagioni della terra (nel tempo e nello spazio, piuttosto complicata come storia), i
Rivers of Nihil hanno visto l'ingresso in formazione di due nuovi elementi che, uniti alle disavventure personali del leader e chitarrista
Brody Uttley, hanno portato un cambiamento nel sound dei Nostri abbastanza rilevante. Innanzitutto sono apparse le tastiere che su
Monarchy si ritagliano un ruolo molto importante, andando a creare un'aurea di pseudo-misticismo nelle parti meno veloci e, insieme ai continui arpeggi delle chitarre, costruiscono una sensazione malinconica che pervade tutto il disco. La furia è ancora presente ed il lavoro dietro al drum kit del nuovo
Alan Balamut è assolutamente apprezzabile oltre che per la ormai consueta velocità di doppia cassa raggiunta dal genere, anche per l'utilizzo continuo e vario dei piatti, cosa che unita ad un riffing più ragionato e ai frequenti break e rallentamenti all'interno dei pezzi, contribuisce all'aggiornamento sonoro di cui vi parlavo poco fa.
È come se il technical death metal veloce ed arzigogolato dei
Rivers of Nihil (debitore di band come
Decrepit Birth, Arsis, Inanimate Existence) avesse incontrato sulla propria strada le aperture futuristiche, progressive, calme e ricolme di tastiere dei
Fallujah, gruppo che personalmente non apprezzo ma che sta riscuotendo un certo successo nel pubblico più giovane. I brani hanno struttura simile tra loro, come dicevo c'è questa contrapposizione continua tra death metal moderno ed abbastanza standard come concezione a parti più lente sulle quali spicca il basso e le tastiere dipingono note pregne di fredda mestizia, quasi provenienti dallo spazio profondo. Gli assoli di chitarra sono sempre di tutto rispetto e le canzoni meglio riuscite sono
Sand Baptism dall'inizio più elaborato e dalla efficace accelerazione, la strumentale e molto tecnica
Terrestria II: Thrive, e
Circles in the Sky varia e ben bilanciata. Altri brani si dilungano su certe soluzioni (
Suntold ad esempio) perdendo enfasi, altri ancora stancano un po' ripetendo spesso lo stesso schema. Insomma, hanno i loro buoni momenti ma non riescono a decollare del tutto.
Concludendo, considero
Monarchy un ascolto abbastanza piacevole e stimo sicuramente la band per aver tentato altre strade cercando di rivisitare il proprio sound ma non lo sento così solido e coinvolgente da esaltarmi.
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