Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo.
Non che servisse un indovino: è la stessa storia del nostro genere prediletto ad insegnarlo.
Ormai ho maturato la convinzione che sia opera del destino: pressoché ogni benedetta (o maledetta, fate vobis) band astrattamente riconducibile all’alveo
dark/gothic che abbia incorporato nel proprio sound matrici “estreme” -
doom,
black o
death, per intenderci-, finisce prima o poi per annacquarle, se non addirittura per smarrirle.
Per trovare cosa?
Alcune ipotesi accreditate conducono ad una vena acustica improntata all’intimismo cantautoriale, ad una cerebralizzazione (perdonate il neologismo)
post-metal alla stregua di
Isis o
Cult Of Luna, ad una sbandata verso l’emozionalità minimale di certi
Radiohead, o ancora, perché no, ad un afflato
electro-wave alla
Depeche Mode.
Poi, in alcuni casi, dopo che quelle lande un tempo inesplorate finiscono per inaridirsi, si torna magicamente al growling, alle chitarrone distorte e alle facce cattive nelle foto promozionali, magari sostenendo tesi improbabili circa la voglia matta di riabbracciare le origini, le suppliche dei fans dopo i concerti, l’essersi resi conto di quanto mancasse il caro, vecchio metallone tonante bla bla bla.
Ma questa è un’altra storia, e per fortuna non si applica al gruppo oggi in esame.
Gli
Hanging Garden, oltre che bravissimi, mi sembrano altresì sinceri, e quindi animati da autentiche smanie di evoluzione artistica. Fatto sta che, in occasione del quarto full length, i finnici seguono le orme di
Katatonia (segnatevi questo nome, tornerà a breve d’attualità),
Tiamat,
Moonspell,
Amorphis,
Sentenced,
Anathema,
Paradise Lost e tanti altri, compiendo un gesto di rottura col passato.
Blackout Whiteout inaugura il nuovo corso degli
Hanging Garden sin dall’artwork, e la musica non è da meno.
L’aggressione, a voler ben vedere, non è stata del tutto elisa dal sound dei Nostri, ma di fatto costituisce elemento ormai marginale. La opener
Borrowed Eyes, il finale di
Eclipse,
My Rise Is Your Fall… giusto qualche parentesi chitarristica, alcune sporadiche linee vocali, e tant’è.
L’anima compositiva versione 2015 pare gravata da un fardello ancor maggiore di malinconia, s’incupisce laddove prima s’infervorava, si specchia in brani meno articolati, in una produzione tanto organica quanto elegante, in chitarre dalla distorsione gentile e in arrangiamenti timidi, scoprendosi tanto bella quanto fragile.
Credo di non sbagliare se individuo nella band del genio
Jonas Renkse il principale punto di riferimento, sia in termini di percorso che di approdo.
Così, le struggenti clean vocals di un
Toni Toivonen in gran spolvero ci traghettano lungo un fiume mosso da correnti di mestizia e disillusione, cui gli amanti di opere quali
Tonight’s Decision e
Last Fair Deal Gone Down faranno bene a non opporsi.
Lasciatevi cullare dalla sommessa epicità di
Unearth -forse la migliore del lotto- dalla struggente delicatezza di
Aoede -in bilico tra
Novembre ed
Anathema-, dall’amara indolenza di
Embers -scelta come singolo apripista del platter- e gioite per lo splendore della tristezza.
Io, quantomeno, sono riuscito a farlo, pur maturando un briciolo di disappunto per qualche svenevolezza di troppo e, soprattutto, per la scomparsa dei miei cari, vecchi
Hanging Garden. Quelli che sapevano miscelare
doom,
death,
dark e
gothic come pochissimi altri.
Ma ero preparato ad una simile svolta: come si sa, è vano opporsi al destino.
http://www.youtube.com/watch?v=FVNHRj6B51w