Circa quindici anni fa tornavo da Torino verso Milano con un velato sorriso.
Avevo assistito ad un memorabile live dei
Dream Theater, in tour per la promozione di
Metropolis Pt.2: Scenes from a Memory (1999), ultimo vero capolavoro dell’era "classica".
Ad aprire, una band allora non molto conosciuta, dal nome alquanto inusuale:
Spock's Beard.
Portnoy & Co. lasciarono il segno nel mio cuore di metallaro ricordandomi di avere una band favorita ma, al riparo da sguardi indiscreti, una vocina mi sussurrava di riservare un piccolo spazio per la musica dei fratelli
Neal e Alan Morse, che di lì a poco avrebbero dato alla luce dischi di riferimento per un nuovo modo di intendere il progressive rock moderno: il tecnico
V (2000) e l'intenso concept doppio
Snow (2002).
The Oblivion Particle decreta la dodicesima prova in studio per la formazione di Los Angeles, in cerca di conferme e stabilità di formazione.
Un lavoro di transizione, a tratti disomogeneo, a suo modo sperimentale (vedasi ad esempio la leggera mimetizzazione
The Flower Kings di
A Better Way To Fly) ma che prosegue sostanzialmente il sound del più che discreto
Brief Nocturnes and
Dreamless Sleep.
L'opener
Tides of Time è puro suono Spock’s Beard, anche nell'insolito riffone rock di fine song, così come le successive
Minion e
Hell’s Not Enough, conferme di classe,
Yes e controtempi a servizio del bene (la forma canzone). In alcuni momenti si perde un poco di immediatezza, soprattutto quando le soluzioni sembrano disperdersi tra scelte artistiche diverse dal solito (
Bennett Built a Time Machine) ed altre maggiormente conformi allo stile, a discapito della fruibilità complessiva dell’album.
Non si discutono né i suoni né la professionalità di realizzazione del prodotto in sé, a questo giro sono i refrain e le melodie a non brillare di luce propria, non sempre memorabili per chi, come me, risulta sensibile all’influsso della nostalgia del passato.
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