“Gli Slayer sono morti, avrebbero dovuto sciogliersi dopo la scomparsa di Hanneman e l’uscita di Lombardo!!”
Questa frase è il motivo per cui, da diversi giorni, dicevo ai miei colleghi di redazione che non avrei voluto scrivere questa recensione. La consapevolezza che l’80% del popolo metal sia convinto di quanto scritto qui su e non faccia altro che sbandierarlo ai quattro venti sui vari forum in giro per la rete (già, ormai non si discute mica più di dischi davanti a qualche birra, si sale in cattedra e lo si fa con supponenza da dietro il monitor di un pc…) mi fa venire l’acqua alle ginocchia, oltre a farmi salire una rabbia indicibile. Quindi se rientrate in questo 80% è inutile che continuate a leggere quanto sto per scrivere. Se invece, come spero, rientrate nel restante 20%, beh, allora siete persone con le quali è possibile instaurare un dialogo e soprattutto siete persone che ragionano con la testa e non col culo, per cui proseguite pure la lettura.
C’è stato un gran chiacchiericcio nei mesi scorsi per quanto riguarda le sorti dell’unica, vera e sola grande thrash metal band del pianeta che ha mantenuto una carriera integerrima nel corso degli anni (a parte la parentesi “Diabolus in musica”). Diversi mesi fa i nostri ci diedero in pasto “Implode”, e io da vecchio e immarcescibile fan del gruppo rimasi assolutamente, favorevolmente, colpito. Poi il fulmine a ciel sereno, quella “When the stillness comes” decisamente deludente, e non perché si tratti di un brano lento, ci mancherebbe, ma l’impressione che ho avuto è che i nostri abbiano cercato di giocarsi la carta ‘nuova “Dead skin mask”’ senza però riuscirci. Poco male, pensai, in fondo si tratta di un solo brano, sono certo che il resto del disco spaccherà il culo ai passeri. E quando ho ascoltato in anteprima la titletrack non solo sono quasi venuto, ma non ho fatto altro che convincermi del fatto che il nuovo album sarebbe stato una bomba. Pezzo veloce, spietato, in pienissimo stile Slayer, con King che s’è superato in fase di songwriting, supportato dall’ottimo lavoro di Holt in fase solista, da un Bostaph mostruoso (la sua prova è incredibile in tutto il disco) e il solito Araya, da sempre sparring partner del corpulento chitarrista, che vomita tutta la sua rabbia nel microfono come fosse ancora il ventenne di “Hell awaits”. L’attesa quindi è salita a dismisura, e quando i nostri hanno reso disponibile anche “Cast the fire stone” mi sono definitivamente convinto che ormai i giochi fossero fatti.
E invece… e invece alla fine ho ascoltato l’album per intero e devo dire che nonostante sia una spanna al di sopra di tutte le più rosee aspettative (per buona pace dei filosofi da forum di cui sopra), devo ammettere, un po’ a malincuore, essendo io uno Slayer-dipendente, che qualcosa poteva andare meglio. In parole povere, mi è mancata quell’immediatezza che mi aspetto da un loro disco, quei brani sparati in faccia a 1000 all’ora e che ti spezzano i denti. Si ha come l’impressione che i nostri abbiano tenuto il freno a mano tirato a metà e che questo abbia impedito all’album di decollare. Il disco è nero come la pece, marcio e maligno all’inverosimile, e pesante come un macigno, grazie anche al già citato lavoro tellurico di Bostaph dietro le pelli, che come già avvenuto in passato non solo non fa rimpiangere il buon vecchio Dave, ma dimostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, di essere l’unico vero sostituto in grado di poter sedere dietro il drum-kit della più violenta thrash metal band della storia. I riff sono in pieno Slayer style, le vocals di Araya tagliano come lamette, e ci sono almeno 5 o 6 brani veramente micidiali, soprattutto nella prima parte dell’album. Il problema, se così vogliamo chiamarlo, viene proprio subito dopo la pietra dello scandalo, quella “When the stillness comes” che funge da spartiacque, essendo la traccia numero sei, e che ci traghetta nella parte del disco più cadenzata e monolitica. A parte “Implode” troviamo brani leggermente lenti per lo standard della band, il che, se da un lato fa guadagnare potenza e cattiveria, lascia leggermente con l’amaro in bocca per la mancanza di qualche pezzo veloce in più. Sono certo che non si tratti di un problema legato all’età, perché dal vivo i nostri continuano a correre come una locomotiva. Penso sia stata una vera e propria scelta stilistica, che alla fine dei conti, forse forse, perlomeno dopo ripetuti ascolti, può risultare vincente. Come già accennato, è salito tantissimo il livello di cattiveria, tant’è che non esiterei a definire “Repentless” il loro album più maligno degli ultimi quindici anni, e la scontata ma splendida copertina è lì a sottolinearlo. Inoltre, conoscendo il loro lato provocatorio e cinico, sono certo non sia stato un caso che abbiano deciso di pubblicarlo proprio l’11 Settembre.
“Repentless” è un disco che ha senz’altro bisogno di più di un ascolto per essere capito a fondo ed essere apprezzato senza remore. Alla fine dei conti, indipendentemente da quanto sia lento o veloce, resta in ogni caso un signor album, che ci consegna una band ancora in ottima forma, che non ha minimamente intenzione di cedere il passo alle nuove leve, e che ha dato l’ennesima lezione di come si suoni il thrash metal. Kerry King, che si è occupato del 90% del songwriting, si è preso la sua personale rivincita nei confronti di tutti gli idioti detrattori che ritenevano gli Slayer una creatura del solo Hanneman (R.I.P., mitico…), e che erano convinti che il nostro non sarebbe stato in grado di mettere due riff uno dietro l’altro. Beh, geni della lampada, “Repentless” è qui a dimostrarvi quanto siete stolti e quanto vi sbagliavate. Se poi, come è giusto che sia, l’uomo senza peli sulla lingua accetterà anche di far contribuire Holt al songwriting, sono certo che, senza snaturare lo stile della band, se ne sentiranno delle belle. Per ora i nostri hanno piazzato un altro pezzo da 90, entrando definitivamente e di diritto nella storia del thrash e del metal in generale.