"Theatrical Madness", secondo album degli
Evil Masquerade, non presenta nessun miglioramento per quanto riguarda l'artwork, che si riallaccia direttamente al precedente "Welcome to the Show". Eppure l'aspetto musicale, questo sì, ci consegna una band che ha saputo scrollarsi di dosso certe spigolosità del debutto e sopratutto la scomoda sensazione di essersi trovati di fronte ad un progetto occasionale.
Gli Evil Masquerade hanno, infatti, mantenuto stabile una formazione dove continua solo a mancare un tastierista, ruolo che anche per l'occasione viene ricoperto da diversi guests, quali Andre Andersen (Royal Hunt), Richard Andersson (Majestic, Space Odyssey) e Mikkel Jensen.
Le tastiere sembrano tuttavia aver perso rilevanza, a favore di un songwriting più orientato alle chitarre, ed allo stesso modo si avverte una maggior propensione a soluzioni più progressive e sperimentali, a discapito di quelle (trite e ritrite) neoclassiche.
"Theatrical Madness" non è solo la titletrack, ma anche una delle canzoni che meglio sottolineano quanto appena affermato, con spunti (a metà tra Tom Waits, i Pink Floyd e... ehm, gli Edguy) teatrali. Gli si riallaccia l'andamento "schizoide" che guida "Bozo The Clown", un brano dalla ritmica ben scandita e con la chitarra di Flyman incisiva. Un brano che nei passaggi strumentali ricorda non poco i Royal Hunt, citati non a caso perché non solo vi suona le tastiere Andre Andersen, dato che lo stesso cantante Henrik Brockmann ha fatto parte dei Royal Hunt per diversi anni. Gli Evil Masquerade più lineari e rockeggianti li troviamo invece su "A Great Day To Die", i legami al prog metal (mi vengono in mente i Symphony X...) sulle energiche "When Satan Calls" e "Other Ways To Babylon", mentre i residui neoclassici emergono sopratutto su "The Dark Play", bella ma appesantita da un (superfluo?) passaggio jazzato.
Quello che non manca mai è un buon tocco melodico abbinato a scelte, se non originali quantomeno inusuali, che solo in rari casi creano un po' di scompiglio all'interno dei singoli pezzi (capita ad esempio su "The Demolition Army" e con la superflua "Snow White").
Non manca nemmeno il "momento della cultura", grazie alla valida e drammatica "Witches Chant", rielaborazione da parte di Henrik Flyman di una scena del "Macbeth" di William Shakespeare.
Questi danesi sembrano avere davvero qualcosa in più e stanno iniziando a mostrarlo, anche grazie al buon supporto del produttore Tommy Hansen che ha mixato l'album.
Non imprescindibili, ma consigliati.
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