Gods of Eden. Nome sicuramente pretenzioso e carico di aspettative per 5 giovanotti australiani al debutto discografico sulla lunga distanza. Prendo “From the End of Heaven”, lo butto nel lettore cd della mia fidata Pro Cee’d e parto per un viaggetto di media durata.
“There are structures on the Moon, there are artificial structures on the Moon. Some of them are old, incredibly old, some on them are new”.Una frase buttata li a mo di intro, poi parte la musica. Pelle d’oca alta fino all’atmosfera. E chi mi conosce sa che tendenzialmente il mio sistema epiteliale di riconoscimento capolavori non ne sbaglia una. E infatti..
Infatti “
From the End of Heaven” finisce negli Highlights, si guadagna un voto stratosferico e prende il volo verso la mia Top10 di fine anno, forse addirittura Top3, sicuramente primo tra le sorprese del 2015. Perché? Semplicemente perché i Gods of Eden hanno trovato la ricetta della felicità, o meglio, la ricetta dell’album moderno (quasi) perfetto.
Togliamoci subito dalle palle quel quasi, così poi possiamo passare a parlare solo ed esclusivamente delle cose meravigliose: la voce clean non convince al 100%, a fronte di un growl/scream decisamente di livello. Non che si abbia molto a che fare con l’approccio clean in questo disco, chiariamoci, però quelle volte che Ian Dixon si butta sul cantato pulito, specialmente nei ritornelli, le cose non sono del tutto soddisfacenti. Più che sufficienti eh, chiariamoci, ma non ai livelli di tutto il resto.
E il resto, signori miei, è tantissima roba. Una premessa però è d’obbligo: se non vi piacciono le sperimentazioni, gli sbrodolamenti tecnici (a volte) fini a sé stessi, il pout-pourri di generi..beh, lasciate pur perdere questo disco, perché qui abbiamo l’eccesso di ognuna di queste voci.
Eccesso che caratterizza anche i testi e i temi affrontati dai canguri, invasati fino al midollo con teorie cospirazioniste, alieni, Illuminati, Anunnaki e chi più ne ha più ne metta. Che son fondamentalmente puttanate eh, chiariamoci, roba che trattata seriamente trova terreno fertile solo tra repressi e menomati mentali, però onestamente se produce quello che ha prodotto con “From the End of Heaven”..chissenefotte. Perché qui c’è tanta, tantissima roba. L’ho già detto? Ve lo spiego meglio.
“
The Overseer (Lunar Ascendancy)” apre il disco come meglio non si potrebbe, restando peraltro fino alla fine il brano migliore del lotto, non a caso scelto dalla band come singolo apripista. E nel brano c’è tutto: una solida base di death melodico, innesti di prog ipertecnico, aperture –core, cori e controcori, voci alternate, arrangiamenti innovativi, un uso accorto e mai esagerato dell’elettronica..tutto. Ok, forse a volte si piscia un pochino fuori dal vaso, ma quando nel vaso si riversa così tanta roba diventa anche fisiologico sbagliare un po’ la mira.
Confusi eh? Faccio un paio di nomi per provare a riportarvi un po’ sulla Terra: Anubis Gate per le parti più prog e per le tematiche, Ne Obliviscaris per alcune follie stilistiche, While Heaven Wept per le atmosfere, Damnation Plan per le parti più violente.
Ancora più confusi di prima? Normale. Perché ascoltare questo disco provoca un senso di smarrimento tale da portarvi a pensare “Ma che cazzo sto ascoltando?”, salvo poi trascinarvi in un vortice quasi impossibile da abbandonare. Si perché oltre a tutto quello che ho elencato, tra le pieghe di “From the End of Heaven” potete trovare un sacco di altre cose: una chitarra flamenca in “
Through the Abyss”, atmosfere à-la Myrath nella doppietta “
Rub’ al Khali” - “
Beyond the Persian Veil”, gli Orphaned Land più incazzati nella title-track..il delirio. Ma un delirio che per il 90% del disco è controllato, una follia scatenata, spogliata da qualsivoglia pragmatismo e lasciata libera di scorrazzare sul pentagramma con esiti a tratti allucinanti. Spazio lasciato alla melodia pochissimo, se non nella centrale “Rub’ al Khali”, che rappresenta l’unica oasi di tranquillità di un disco lanciato a mille all’ora e chiuso a tremila da “
Gods of Eden”, l’episodio più prettamente death-core del platter..almeno nella prima parte, perché dal terzo minuto in avanti ritorna la chitarra flamenca e rifanno capolino le atmosfere mediorientaleggianti. Ma giusto un minutino eh, perché poi è di nuovo delirio iper-tecnico, chitarre fuse e batteria a elicottero. PAZZI.
Si è capito vero, che “
From the End of Heaven” mi è piaciuto un sacco? Beh, ultimamente mi è capitato di rado di fomentarmi così tanto per un album, specialmente per un album di debutto. I
Gods of Eden hanno decisamente colpito nel segno, sfornando un disco eccellente sotto ogni punto di vista, dimostrando che il nome non sempre fa la qualità. Qui la qualità la fa la musica, l’innovazione, l’originalità e soprattutto il coraggio. E i Gods of Eden ne hanno da vendere.
Quoth the Raven, Nevermore..