La prima domanda da farsi (quella che, per intendersi, rispettando una consolidata tradizione, “sorge spontanea” …) è: da dove è uscito questo
John Dallas? Perché non ne ho mai sentito parlare finora? E come mai il suo “
Wild life” non è
ancora sulla bocca di tutti gli appassionati di
hard-rock?
Proviamo a rimediare all’
incresciosa situazione affermando con perentoria convinzione che il
vocalist di Bologna (vero nome
Luca Stanzani) e i suoi (non meglio identificati) sodali possiedono tutte le necessarie qualità per sfuggire alla massificazione del
rockrama contemporaneo, livellato verso l’alto e tuttavia raramente davvero sorprendente.
Il disco è uno spumeggiante coacervo di brillanti arrangiamenti, melodie vincenti e intraprendenza espressiva, alimentato principalmente da mentori del calibro di Bon Jovi, Skid Row, Quiet Riot e WASP e ciononostante talmente contagioso e appassionante da non poter nemmeno essere sfiorato dal manierismo di troppe produzioni molto diligenti e poco vitali.
Ed ecco che un canovaccio stilistico parecchio rigoroso diventa “imprevedibile” attraverso la forza invincibile delle canzoni, tutte intriganti e infettive, all’interno di un programma che scuote i sensi dalla prima all’ultima nota, andando “dritto allo scopo” in maniera istantanea e mirata.
“
Wild life” inizia, infatti, a colpire fin dall’irresistibile ardore Bon Jovi-
esque di “
Under control” e prosegue nell’impresa con le pulsioni
attualizzate della travolgente “
Heaven is” e con lo splendore emotivo di “
Falling”, capace di combinare con sagacia grinta e romanticismo.
Nessuna pausa concessa nemmeno dal clima ombroso e decadente (rievocante qualcosa di Vain e 69 Eyes) della
title-track e dall’ottima “
Dreamin' on” che sembra fondere Journey e Aerosmith in un crogiolo di prezioso temperamento, mentre “
Electric” rappresenta un’eloquente risposta a chi crede che per scrivere un brano d’ispirazione
ottantiana si debba inevitabilmente apparire derivativi e forzatamente nostalgici.
In un albo caratterizzato da un’adeguata varietà compositiva, a ulteriore conferma della duttilità e del valore di un’eccellente laringe, arrivano le suggestive atmosfere
bluesy di “
Freedom”, e se “
Psycho game” potrebbe nuovamente risollevare le svalutate quotazioni di un celebre cantante italoamericano del New Jersey, tocca a “
Love's fake” stupire l’astante con una morbosa dissertazione
cibernetica, tra Marilyn Manson e Shotgun Messiah … una “roba” un pochino spiazzante, forse, eppure abbastanza riuscita e focalizzata.
Un esordio autorevole e ispirato per un artista che, come anticipato, ha tutte le doti per imporsi come una fulgida realtà della “scena” … cosa manca? Solo un po’ di fortuna, direi … e il caloroso augurio di potersene giovare è l’unica chiosa possibile all'analisi di un’opera fortemente raccomandata.
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