Nell'ormai lontano 2010 la suddetta band suscitò il mio interesse per due motivi: il titolo dell'album in uscita,
"Blackjazz" (che, di fatto, si proponeva di "creare" una nuova scuola di genere) e una cover di uno dei miei gruppi preferiti di sempre, ovvero
"21st Century Schizoid Man" dei King Crimson (a tutti gli effetti una chiara dichiarazione di intenti). All'ascolto del CD rimasi letteralmente sconvolto, convinto di essere incappato in una delle realtà più promettenti della mia vita di ascoltatore. Ad un'analisi più attenta della biografia degli
Shining scopriamo che la band, dal 1999 (quando era un quartetto jazz) a oggi, ha collezionato svariati cambi di organico (altra eredità "crimsoniana"), con un'unica costante ovvero il "cantante/sassofonista/tante altre cose"
Jørgen Munkeby. Scritturati dalla
Spinefarm Records, dopo un altro disco (meno riuscito) del 2013 intitolato
"One One One", gli
Shining di oggi sono un po' più "mainstream" (almeno ci provano) e meno "folli" di un tempo e per questo (forse) un po' meno interessanti.
“International Blackjazz Society” parte benissimo con la breve
"Admittance", un solo di sax su una cadenza dai richiami classicheggianti (perchè sì, c'è anche tanta musica "colta" nel DNA del frontman), che prelude a
"The Last Stand", equilibrata nella sua duplice natura di brano da concerto e di biglietto da visita del combo norvegese nella sua "versione 2015".
"Burn It All" e
"Last Day", ahimè, sono davvero due cali di stile con i loro richiami neanche troppo velati a Rammstein (
"Last Day" ha parecchie somiglianze con
"Mein Land" della formazione teutonica) e Slipknot del primo periodo.
"Thousand Eyes" torna su binari più consoni e rimanda proprio al sopraccitato
"Blackjazz". Meno chiara la funzione di
"House Of Warship", molto simile alla prima traccia, solo più lunga e strutturata, che porta alla promessa mancata
"House Of Control", una "quasi-ballad" con il suo incipit simil-Tool che purtroppo si perde in un finale decisamente troppo prolisso.
"Church Of Endurance" altro non è che un minuto di voce filtrata adagiata su un tappeto di sintetizzatori (anche stavolta ne è poco chiara la funzione) che ci guida verso una traccia conclusiva pregevole intitolata
"Need" con il suo groove davvero coinvolgente e la durata (finalmente) adeguata alle idee messe in campo. Luci e ombre di un lavoro che vorrebbe essere "per tutti" ma proprio quando ci prova perde molto del suo fascino. Comunque promossi perchè il "Blackjazz" lo hanno inventato loro e, per ora, non hanno rivali.
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