Che i
Find Me fossero altamente competitivi nella convulsa tenzone dell’attuale
rockrama melodico era chiaro anche solo leggendo i nomi coinvolti nel progetto. Il loro debutto “
Wings of love” lo aveva ampiamente confermato alla prova dei fatti, pur scontando, almeno alle orecchie del sottoscritto, un pizzico di “superficialità emotiva”, un alito d’apatia compositiva che non consentiva ai brani di conquistare fino in fondo i sensi.
Ebbene, cari
chic rockers impegnati alla lettura, la grande notizia è che in questo nuovo “
Dark angel” il
team creativo (cui prendono parte il “nostro”
Alessandro Del Vecchio,
Mark Mangold, i fratelli
Martin e
Niclas Olsson, oltre a
Soren Kronqvist e
Philip Lindstrand, impegnati anche come strumentisti ) ha dato il meglio di sé, consentendo all’impeccabile controparte esecutiva di spiegare davvero le ali e volare lassù alle pendici della soddisfazione
cardio-uditiva.
L’unica
conditio sine qua non per godere di tale importante gratificazione è che siate estimatori di una versione molto
ottantiana del
melodic rock e che non cerchiate sfumature “moderniste” in un settore che comunque fa del rigore stilistico una delle sue tipiche peculiarità.
Qui tutto rimanda alle icone “classiche” del settore, e la voce stentorea di
Robbie Lablanc in tale contesto è semplicemente perfetta, marchiando in maniera indelebile una serie di brani dalle strutture molto “familiari” e tuttavia stavolta talmente pregne di
feeling e di spiccatissimo gusto melodico da scacciare immediatamente ogni ombra di fastidioso manierismo.
Survivor, Loverboy, Giant, Signal, addirittura bagliori dei
cult heroes Van Stephenson affiorano nella mente durante l’ascolto dell’albo, ma la loro citazione non appare mai invadente e molesta e finisce esclusivamente per alimentare l’entusiasmo di chi sa ancora distinguere la differenza tra ispirazione genuina e patetica parodia.
Cinquantacinque minuti di splendida musica, insomma, in cui anche la “nostalgia” diventa un sentimento in qualche modo propositivo, alimentato dall’estensione degli arrangiamenti e dalla ricchezza delle melodie, per un effetto “contagio” che si concretizza fin dallo sfarzo dell’
opener "
Nowhere to hide” (una sorta di guanto di sfida agli House Of Lords …) e s’interrompe solo quando l’ultima nota della brillante trascrizione di “
I’m free” (di
Kenny Loggins, pezzo contenuto nella colonna sonora di “
Footloose”, a proposito delle ambientazioni di riferimento dell’opera ...) lascia l’astante in una condizione d’astinenza che lo costringe all'ennesima pressione del tasto
play.
Tra gli estremi, altre dieci perle di scintillante purezza sonica, dall’ariosa spigliatezza di “
Let love rule”, alla carica romantica di “
Forever” e “
Don’t slip away from me”, dalle adescanti opulenze armoniche di “
Another day” alle suggestioni vagamente Asia-
tiche di “
Bleed in the rain”, senza trascurare la ruffianeria “radiofonica” di “
Face to face” e della
poppettosa “
Midnight memories”.
Se non vi tornano i conti è soltanto perché i restanti titoli del programma meritano un’ulteriore sottolineatura di merito: rimanere impassibili di fronte alla favolosa ombrosità della
title-track e di “
Where do I go” o non rabbrividire di compiacimento al cospetto della scintillante “
Did you feel any love” equivale a soffrire di disturbi della sfera affettiva, o forse, più
prosaicamente, attesta di non avere nel cuore la
storia di questi suoni immarcescibili.
Un disco di comprovata ed evidente “fede” artistica, un aspetto che non svilisce in nessun modo la sua pressoché assoluta eccellenza … qualora rimpiangiate gli anni d’oro del genere, ora sapete dove rivolgervi.