Gli
Hell In The Club sono una grande band. Una definizione che personalmente mi sento di concedere con convinzione solo alle formazioni che non si “accontentano” di riproporre, magari anche in maniera assai competente, una formula stilistica molto nota e che soprattutto, dopo una carriera abbastanza cospicua (siamo giunti ormai al terzo disco), cercano altresì di andare oltre “loro stesse”, intridendo di variegate sfumature soniche l’istintiva intraprendenza espressiva che le contraddistingue.
La miscela musicale ideata per questo “
Shadow of the monster” non deluderà chi ha saputo apprezzare il
feeling torrido e inebriante dei lavori precedenti (anche se a onor del vero, bisogna purtroppo rilevare che nel programma non è presente una “nuova” “
Proud”, tuttora vertice creativo-emozionale del quartetto italico …) e dimostra come, nell’ambito dei territori minati del
rock n’ roll, dove plagi e “eccessi ispirativi” sono all’ordine del giorno, si possa districarsi con enorme disinvoltura, trasmettendo all’ascoltatore energia, colore melodico e una qualità compositiva di livello superiore, alimentata dalla “storia” del genere e non per questo pavida e arrendevole.
Non c’è modo più opportuno di questo per celebrare adeguatamente i “mostri sacri” del settore, e fin dalla pulsante apertura di “
DANCE!”, aggredente i sensi come i Motley Crue dei tempi belli, l’impressione di avere a che fare con un altro albo d’intensità non comune è vivida e tangibile. “
... Enjoy the ride” evoca i Poison di “
Flesh & blood” e li teletrasporta dritti nel terzo millennio, “
Hell sweet hell” ha la vitalità dei Tesla e dei primi Great White, la
title-track farà fremere di soddisfazione i fans dei Guns n’ Roses (e dei Metallica!) e “
The life & death of Mr. Nobody” quelli dei Bon Jovi, da tempo digiuni di una pietanza tanto succulenta.
“
Appetite” lambisce territori
class-metal e ha un
refrain vischiosissimo (oltre a un grazioso
break Queen-
esco), “
Naked” è una virile pausa romantica di discreta efficacia (ottimo il
guitar solo!) e “
Le cirque des horreurs” sfida sul loro terreno preferito i migliori Crashdiet.
Finale inaugurato da “
Try me, hate me”, irresistibile
anthem Crue-
iano, in netta contrapposizione con “
Money changes everything” suggestiva
cover dei The Brains (celebre soprattutto nella versione di Cyndi Lauper) e splendida palestra per le preziose doti interpretative di
Davide Moras.
Dimenticate lo
sleaze più manierato, i tanti
streeters troppo ossequiosi e affidatevi all’eccitante freschezza di chi sa come dare la scossa a questi suoni ancora seducenti e coinvolgenti. Si chiamano
Hell In The Club e si confermano una scintillante realtà del
rockrama contemporaneo.
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