“
Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze” affermava il maggior produttore di aforismi della storia della letteratura planetaria.
Ed io, che in
Oscar Wilde ripongo cieca fiducia, ero già in modalità stroncatura per i poveri
Dvalin.
D’altra parte, non so quale altro approccio avrei dovuto tenere con un gruppo che mi si presenta con:
- un nome che sembra l’imitazione cinese di un nano del romanzo “
Lo Hobbit” (anche se in realtà, come peraltro per lo stesso
Tolkien, è tratto dalla mitologia norrena);
- un logo tozzo, poco leggibile e ancor meno accattivante;
- un debut album dal titolo banale oltre ogni dire (“
Aus Dem Schatten” = “
Fuori dall’Ombra”) e dalla copertina capace di catturare l’attenzione quanto le lezioni di matematica trasmesse anni fa sulla
RAI alle 5 del mattino.
Insomma, le premesse per lanciare un fugace, sdegnoso sguardo in direzione dell’album per poi dirottarlo altrove ci sarebbero state eccome; senonché, l’assunto dello scrittore irlandese traballa allorquando lo si applica alla musica, ancor più se metal. Lo sa bene il sottoscritto, più volte raggirato da artwork splendidi che tuttavia celavano, al loro interno, dischetti incresciosi.
Chiariamo: con questo pistolotto iniziale non intendo certo sostenere che il platter in esame sia un capolavoro assoluto. Al tempo stesso, qualche spunto interessante nel sound della band di
Wϋrzburg lo si rinviene senz’altro.
Pacificamente inseribili nell’ormai asfittico filone
folk-pagan (
Moonsorrow, vi prego, pensateci voi col nuovo “
Jumalten aika”), l’allegra banda -parliamo di ben sette musicisti, ivi compresi due suonatori di cornamusa- prova quantomeno a proporre un taglio personale alla materia trattata.
È proprio l’utilizzo delle cornamuse a garantire un
modicum di distinguibilità alle canzoni di “
Aus Dem Schatten”, per quanto le influenze di
Equilibrium ed
Eluveitie siano comunque percepibili.
Citerei anche, quale freccia all’arco dei Nostri, un criterio compositivo tutt’altro che semplicistico, tanto che da più parti ho letto la parolina “
prog”. Una forzatura, certo, utilizzata per inquadrare i numerosi cambi di tempo ed un riffing ben più elaborato rispetto alla media del genere.
Al tempo stesso, non possono venir taciute alcune pecche di gioventù:
- le partiture chitarristiche di matrice
death metal non funzionano, mancando clamorosamente di incisività;
- troppo di rado le melodie si stampano in testa come dovrebbero;
- le diverse anime sonore necessiterebbero di maggior amalgama, mentre si ha sovente la sgradevole impressione del “taglia e cuci” di fasi del tutto scollegate tra loro.
Di tale equivoco soffrono particolarmente i pezzi più ambiziosi, come le due pastrocchiate parti di “
Omen”; meglio, a mio avviso, quando il songwriting rimane più asciutto e conciso (penso alla violenta “
Schöpfer des Nichts”, forse la migliore, alla maramalda “
Zwergenvolk” o ancora alla strumentale “
Skaldenfest”, una delle più squisitamente
folk del lotto).
In definitiva ci troviamo di fronte ad un debut non folgorante ma piacevole, che difficilmente scontenterà gli appassionati. Vanno inoltre riconosciuti agli
Dvalin significativi margini di miglioramento: se i buoni spunti verranno coltivati e i difetti limati, credo ci sia il potenziale per costruire una carriera solida.
Ich wünsche Ihnen Glück.