Quante band hanno mantenuto la qualità intatta nei primi dieci anni di carriera? Non tante, se ci pensate bene. Soprattutto, era una prassi consolidata negli anni 70/80, quando effettivamente tutti i grandi nomi sfornavano nel primo periodo di attività un disco dietro l’altro, centrando l’obiettivo ogni volta. Ebbene, a mia memoria, i gruppi nati dopo il 2000 che oggi possono vantare una discografia senza intoppi sono molto ma molto pochi. I
Black Stone Cherry sono una di queste band e, grazie al prepotente ritorno intitolato “
Kentucky”, riescono ad azzeccare il quinto disco di fila.
Il cambio di label (da
Roadrunner a
Mascot) fa decisamente bene agli statunitensi, che ci propongono un album viscerale, decisamente più heavy dei predecessori, in cui la componente southern del sound viene amplificata ai massimi livelli. In poche parole, sembra di avere tra le mani un disco assolutamente “libero” da obblighi radiofonici o contrattuali, in grado di riscoprire la voglia di picchiare, mantenendo però inalterata la classe acquisita con l’esperienza e soprattutto un marchio di fabbrica riconoscibile, piacevole ed invidiabile.
Trascurabili le prime due canzoni, il disco inizia a mostrare tutto il suo potenziale a partire da “
Shakin My Cage”: da lì in poi è un susseguirsi di brani ritmati, potenti e trascinanti, in cui si segnalano in particolare “
Long Ride”, “
Rescue Me” e “
Feeling Fuzzy”. Tanto per non smentire la propria capacità di scrivere ballad, infine, la band ci regala anche grandi emozioni con la conclusiva “
The Rambler”: davvero un bel brano, malinconico e delicato.
Se amate i
Black Stone Cherry continuerete a farlo, anche con più intensità, ma se non li conoscete ancora questa è l’occasione giusta per cominciare ad ascoltarli. Per quanto mi riguarda un disco che finisce dritto tra i top album 2016.
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