Verso quali orizzonti s’indirizzerà la musica
rock? In un contesto in cui tutto sembra già stato sperimentato e inventato, e dove non rimane che “ispirarsi” a qualcosa di esistente, quale può essere la scelta migliore? Tentare di mescolare le influenze e i generi è un’opzione ambiziosa e potenzialmente molto proficua, ma anche assai azzardata, esposta al pericolo di scontentare allo stesso modo sia i “puristi” dei singoli stili musicali e sia il popolo degli “alternativi”, per cui, tra l’altro, spesso, pure le questioni “extra-artistiche” hanno un peso importante nell’orientamento degli interessi.
Insomma, l’ibridazione sonora è di per sé una “brutta bestia” e se ci si presenta con un
look poco appariscente, sostenuti da un’etichetta come l’
Escape Music, famosa soprattutto per
hard melodico e
AOR, il rischio che non ci siano esattamente i presupposti per un’affermazione commerciale su vasta scala ci sono tutti.
Al di là di ogni altra valutazione di contorno, duole non poco appurare che alla prova dei fatti i
MarysCreek, virtuosi tecnicamente e favoriti da un ricco
background, nell’architettare il loro
meltin’ pot di
metal,
prog,
pop e
grunge, spruzzato da
gothic e da sonorità
adulte, fatichino a individuare una chiave di lettura coerente e organica, finendo per perdersi nei meandri di una proposta musicale non sempre provvista del giusto impatto emotivo.
Vicini per certi versi all’approccio sfoggiato dai conterranei Masquerade, degreed e The Poodles, i nostri svedesi passano con discreta disinvoltura dalle oscurità metalliche in odore di Alice In Chains di “
Hypnotized”, “
My confession” e “
My own enemy”, alle scorie Queensryche-
iane di "
Buried deep within”, senza dimenticare di evocare malinconie alla The Rasmus in "
Into infinity” e “
The first day”, e anche se piace la tipica sensibilità scandinava (figlia di Europe, Stage Dolls e Pretty Maids, esibita in particolare nella costruzione dei
refrain) con la quale il gruppo infarcisce il suo
songwriting, l’effetto finale, pur gradevole nell'insieme, non conquista fino in fondo.
Nemmeno il “tiro”
anthemico di “
So afraid (to live)”, “
The ghost inside”, “
Forever lost” e della leggermente superiore “
Tomorrow” o le cadenze melodrammatiche e granitiche di "
Blinded by darkness” forniscono scosse veramente durature, mentre oltremodo anonima appare la romantica "
On the other side”, formalmente ineccepibile e altrettanto evanescente sotto il profilo dell’incisività
cardio-uditiva.
“
Infinity” offre l’immagine di una
band dotata di una buona dose di talento ed esperienza, che però non è ancora riuscita a focalizzare al meglio la sua attitudine artistica, sospesa tra “classico” e “moderno”.
Attendiamo che la “bestia” sia domata a dovere …
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