Nono album in vent’anni di militanza, per questa band nata in apparenza come side-project di
Michael Amott (Arch Enemy, ex-Carcass) ma diventata gradualmente una splendida e concreta realtà del vintage rock o più semplicemente del buon vecchio hard rock d’ispirazione settantiana.
Nessuna novità di rilievo, grazie ad una line-up ormai consolidata da tempo, nello stile del quintetto: canzoni solide, grintose, ricche di groove e di finezze strumentali. Soprattutto una grande capacità di songwriting, che attenua anche l’affiorare di qualche inevitabile autocitazione.
La title-track è un tradizionale cadenzato beggars-style, mentre “
Diamond under pressure” omaggia chiaramente i Deep Purple settantiani grazie alle tastiere di
Per Wiberg. Tumultuoso il tiro di “
What doesn’t kill you” e “
Dark light child”, roccioso e metallico quello di “
Hard road” dal ritornello accattivante. Ci sono anche pezzi più articolati e sinuosi come “
No man’s land”, “
Lonely freedom” e soprattutto la mesmerica e dolce “
Southern star” che ci riporta ai primi lavori della band.
A tre anni circa dal precedente “Earth blues”, gli
Spiritual Beggars si riconfermano una solida costante del panorama rock internazionale.
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