Al loro debut sono stati considerati poco più di un gruppo che in maniera becera tentava di emulare i grandi del power metal sinfonico e sicuramente l’influenza di bande come Stratovarius, Masterplan, Sonata Arctica, e Nightwish sono abbastanza palesi e a tratti quasi sovrapponibili. Ovviamente solo le influenze, mentre nella sostanza sono ancora lontani dall’emularli.
Tuttavia, in un’ottica di evoluzione artistica e musicale, bisogna essere onesti e riconoscere che il tempo non è passato invano e che questi ragazzi, oltre che sicuramente passare i week-end in una
mokki finlandese sperduta in mezzo alla foresta, hanno sviluppato decisamente più fantasia nel songwriting e anche più coerenza nel scrivere i pezzi e predisporre l’insieme dell’album.
Ecco allora che tornano con un lavoro che, seppur limitato in termini di impatto e di varietà, li avvicina un po’ di più ai loro miti.
L’inizio è molto coraggioso con due pezzi che hanno il sapore di epicità, quasi maestosi e con un ritmo serrante ed anche un buon tiro. Nonostante la voce un po’ sottile a tratti, le chitarre e le tastiere riempiono il tutto e riescono a far sollevare i pezzi e mantenerli costanti senza nessun momento di débâcle.
La successiva “
Sacrificed & Immortalized” li vede ancora protagonisti di uno stiloso riff chitarristico affiancato da una strofa rallentata e possente. Purtroppo si evidenza chiaramente la debolezza della voce a sostenere l’interpretazione richiesta. Nonostante ciò, le chitarre e la parte ritmica fanno un lavoro martellante che supplisce molto bene per tutta la durata del brano.
In “
Be Careful What You Wish For” i finnici si cimentano in un difficile tentativo di inserire influenze più melodiche e orchestrali. Il risultato non è del tutto deludente, un po’ banale, ma comunque piacevole in particolare per la tastiera messa in evidenza e i duetti con la chitarra.
“
Nightmares Never Give Up” è quasi un tribute ai loro idoli. Il tiro, i riff, la melodia ed il refrain molto assimilabile e di immediata familiarità lo rende, seppur un pelo fuori schema per via di quelle strofe recitate a blocchi e quasi al limite della serietà, un emblema di una generazione che è rimasta stregata da un genere musicale. Accompagnati dalle note che li hanno preceduti, questi ragazzi hanno intrapreso la stessa strada senza curarsi forse di quanto difficile poteva essere percorrerla.
Da riconoscere che in questo tempo hanno imparato anche a strutturare un disco in maniera più intelligente. E così, dopo una tirata quasi sfrenata, ecco arrivare la classica ballata a smorzare il ritmo a metà album, “
Wastelands of Ice”, dove la presenza del piano, che si adatta molto bene seppur troppo nascosta da un suono di chitarra eccessivamente distorta e massiccia, trasforma per un attivo la sensazione e sembra di ascoltare un buon hard rock seppur di semplice matrice.
Finalmente, ecco arrivati alla title track: “
The Outlaw”. In questo pezzo hanno sicuramente inserito tutti gli elementi che potevano renderlo il più potente possibile. Doppie casse (in finlandese
tupla basari) ad una velocità stratosferica, ritmo incalzante ma sempre smorzato da momenti lenti e pesanti, con tanto di campane in sottofondo per rendere il sound più greve e oscuro, assoli di chitarra e tastiera che si intrecciano nel finale e soprattutto quella gran cassa che scandisce il ritmo come un orologio svizzero.
Le soprese continuano e il gruppo risulta abbia appreso anche la lezione che inserire influenze esterne può portare ad un’ulteriore maturazione. O forse hanno solamente ascoltato l’ultimo dei Myrath, fatto sta che in “
Ghosts of Sahara” cercano di apportare influenze arabeggianti, naturalmente smorzate dal ritmo costante e da un refrain non casistico. Anche gli assoli di chitarra iniziano ad acquistare un po’ di personalità e d’attenzione al fraseggio oltre che alla velocità d’esecuzione.
Per me il disco poteva anche chiudersi qua, invece il gruppo intende far continuare il viaggio all’ascoltatore e propone, con tanto di scalpitio di zoccoli, muggito di vacche e fischi nel mezzo del brano, “
Heading West”. Di fatto risulta essere più un ibrido di quanto già precedentemente ascoltato durante l’album. Una mera riproposizione, un po’ noiosa, dei riff e dei giri già ampiamente presenti negli altri pezzi. Forse inserito solo per dare libero sfogo alla chitarra ed alla tastiera che mettono in campo alternativamente lunghi assoli a mo’ di botta e risposta.
Il disco si chiude con “
The Great Palace of the Sea” che risulta essere curiosa sia per la lunghezza che per la sonorità a stampo irlandese. Molto ripetitiva ed eccessivamente trascinata, sicuramente ideata per il fine concerti dove ormai tutti sono talmente ubriachi da non capire più che cosa stanno veramente ascoltando, e parlo per esperienza personale, tanto che dal nulla esce un remake classico con finale apparentemente epico e maestoso senza capo ne coda che fa pensare di aver ascoltato un concept senza accorgersene.
A parte le battute innocue, il disco nonostante tutto non spicca ed il motivo sta nel fatto che è una riproposizione troppo imitante. Ciò non troglie il riconoscimento di averci riprovato con passione e costanza ed è un ottimo presagio per l’avvento di un futuro lavoro con maggiore personalizzazione ed identità, sperando che smettano di tentare di diventare come i loro idoli, iniziando invece ad essere ciò che sono.
A cura di Pasinato Giovanni