“Everchild”, un corposo concept sull’infanzia perduta e sull’impossibilità di ritorno al passato, è un
buon disco di rock progressivo. Quello che fa girare gli zebedei è che, con qualche piccolo accorgimento ulteriore, avrebbe potuto essere un
gran disco di rock progressivo.
La biografia dei
Dark Suns (e non solo quella) rimanda al percorso artistico dei Porcupine Tree. Proprio come nel caso di
Steven Wilson e soci anche i tedeschi nascono come side-project di
Tobias Gommlich e
Niko Knappe nel 1997 per poi diventare qualcosa di più importante. Dal death/dark progressive metal degli esordi all’elegante formula post/progressiva odierna si sono succeduti vari eventi, inclusi numerosi avvicendamenti interni alla formazione e un tour a fianco dei Pain Of Salvation.
Attualmente il combo conta otto (!) elementi, tra i quali spiccano un trombettista (
Govinda Abbott) e un sassofonista (
Evgeny Ring) di ruolo. Il sound, come già anticipato, rimanda soprattutto all’
albero istrice di fine Anni Novanta (antecedente alla virata metal
tout court) e ai Marillion dell’era
Hogarth, con elementi jazz e un tastierismo molto pronunciato a fare da intrigante diversivo.
Si parte subito bene con l’opener
“The Only Young Ones Left”, dove è la tromba di
Abbott a spiccare e a rimandare al
Miles Davis del periodo elettrico (e a farci fantasticare su cosa avrebbe potuto fare il jazzista in un gruppo prog).
“Spiders” comincia già a suonare troppo Porcupine Tree, soprattutto nel batterismo marcatamente debitore dello stile di
Gavin Harrison. Un break strumentale noiosetto e un finale in fade non aiutano di certo a lasciare il segno. Discorso simile si può fare per
“Escape With The Sun”, più vicino alle sonorità di
“Deadwing” ma davvero al limite del plagio nelle linee vocali e nell’utilizzo dei filtri.
“Monster” è un altro ottimo brano, un duetto nuovamente vicino al jazz nell’uso del sax e del piano (con qualche reminiscenza dei Van Der Graaf Generator) che stupisce per l’interessante evoluzione elettrica. Le successive
“Codes” e
“The Fountain Garden”, nonostante la scrittura organica e qualche buono spunto strumentale, mancano di originalità per i motivi sopraccitati. Da qui alla fine i punti deboli sono oggettivamente pochi:
“Unfinished People” introduce alcuni lodevoli spunti elettronici (quasi Riverside), con un bel groove supportato dai fiati e dai contrasti vocali;
“Everchild”, con la superba introduzione pianistica e ulteriori divagazioni elettroniche, profuma di alternative;
“Torn Wings” è una traccia elegantissima fatta di sfumature sinfoniche, break strumentali da jazz club, uno splendido assolo di synth ma un finale un po’ prolisso che lascia l’amaro in bocca;
“Morning Rain”, nuovamente guidata dal piano, ha nel contrasto tra il commovente ritornello e la strofa “sghemba” il maggior motivo di interesse, mentre dall’intermezzo strumentale alla chiusura la noia, purtroppo, si fa sentire. Come bonus, la band ci regala una riuscita rielaborazione di
“Yes, Anastasia” dell’immensa
Tori Amos.
Siamo al cospetto di un album spesso derivativo (a volte troppo) e a tratti autoindulgente, ma se la band saprà concentrarsi sulle proprie caratteristiche più originali non tarderà a sfornare un capolavoro, ne sono certo. Aggiungo mezzo punto per la splendida copertina.
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