Da quando ho ascoltato il loro primo disco, uscito agli albori del grande
boom del
revival hard-rock scandinavo, mi sono fermamente convinto che i
Brutus ci stiano “prendendo in giro”. Non si sono per nulla formati nel 2008 e dietro a questo simpatico
monicker si cela in realtà un’oscura formazione inglese o americana, nata nel 1969 (o giù di lì …) e rimasta “ibernata” fino al terzo millennio.
Difficile suonare così “veri” se non si è condiviso il palco con dei giovani Black Sabbath o si è vissuto “in diretta” l’epopea di gente come Jerusalem, Savoy Brown, Johnny Winter And, Leaf Hound, Blue Cheer e Josefus.
Escludendo ogni improbabile ipotesi “fantascientifica”, diciamo che i nostri sono stati davvero abili nell’assorbire quella nobile scuola sonora e poi riuscire a restituirla intatta all’ascoltatore appassionato, che non potrà proprio mettere in dubbio la loro sincerità, accogliendoli per quel che sono, ossia degli autentici
freaks perdutamente innamorati dei
seventies che non rischiano di essere scambiati nemmeno per un attimo per degli scaltri e superficiali plagiari, ingolositi dal successo del cosiddetto “vintage”.
“
Wandering blind” è (e non “sembra” …) in tutto e per tutto un disco di
psych-heavy-rock-blues settantiano, il suono è caldo e valvolare (ottimo, in questo senso, il lavoro svolto in cabina di regia da
Christian Engfelt), la voce ti avvolge con le sue ipnotiche sfumature Ozzy-
ane, le chitarre fremono e graffiano, mentre basso e batteria pulsano su frequenze magnetiche e concentriche.
Insomma, se questa “vecchia roba” fa ancora battere il vostro
cuoricino e non esigete guizzi di palese “personalità” anche all’interno di forme espressive molto rigorose (i Graveyard, ad esempio, sono sicuramente superiori in fatto di carattere e temperamento), sarà quasi impossibile rimanere indifferenti di fronte a “
Wandering blind”, “
Drowning”, “
Blind village” e alla possente "
Creepin”, mentre tocca all’inebriante "
Axe man”, all’accorata e liquida “
Whirlwind of madness”, al
bluesaccio "
My lonely room” e alla spirale caliginosa in cui è immersa "
Living in a daze” fornire scosse emotive ancora più intense e profonde.
Un tuffo nel passato credibile e benefico, dunque, destinato a chi ritiene che l’evidente celebrazione della tradizione e di certi “mostri sacri” possa ancora offrire, grazie al talento e alla passione, prospettive artistiche importanti e, soprattutto, tante buone vibrazioni.
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