“
La maturità migliora lo stile e cancella l'estro”, scrisse
Francesco Burdin, che negli ultimi tempi mi capita spesso di citare.
Ebbene, l’aforisma fotografa alla perfezione una delle certezze più inestirpabili dei “nostalgici a prescindere”, ossia che ispirazione e guizzo vadano sempre e comunque ricercati nei primi(ssimi) vagiti di un artista, e che tutto quanto venga dopo debba giocoforza venir derubricato a mera minestra riscaldata.
La snobistica teoria, brillantemente esposta da
Sick Boy in una scena di “
Trainspotting”, trova terreno oltremodo fertile nel mondo del metallo pesante (“
i veri Iron Maiden sono solo quelli con Di’Anno”; “
I Metallica non sfornano una canzone decente dagli anni ‘80”; “
Gli Helloween senza Kiske non hanno ragione di esistere” bla bla bla).
Spesso, tuttavia, le predette argomentazioni denunciano un approccio apodittico e superficiale, ignorando colpevolmente -o dolosamente, a voler pensar male- le centinaia di band che, dopo esordi acerbi, hanno saputo migliorarsi album dopo album.
Ebbene: da oggi, nel virtuoso novero, va aggiunto il nome degli
Harakiri for the Sky.
Il duo di austriaci natali, infatti, riprende quanto di buono dimostrato in occasione dei due precedenti full (“
Harakiri for the Sky” del 2012 e “
Aokigahara” del 2014), perfezionandolo, calibrandone le componenti, limandone le imperfezioni, più in generale dimostrando l’evoluzione che ogni amante di queste sonorità avrebbe auspicato.
Sonorità che non mutano comunque granché, rimanendo in bilico tra la tetra sofferenza del
DSBM, la rassegnata amarezza del
dark anni ’90 e la nostalgica introspezione di certo
post rock, ma che in questa sede acquisiscono tutt’altro spessore.
“
III: Trauma” colpisce sin dall’artwork in bianco e nero, ancora una volta incentrato sulla sofferenza di rappresentanti del regno animale, e non smette di sorprendere con l’opening track “
Calling the Rain”, manifesto programmatico di una compagine capace, come i migliori
Ghost Bath, di esprimere solennità e disperazione al tempo stesso.
Proseguendo nella tracklist, abilmente giocata sull’alternanza di momenti pacati ed altri più smaccatamente metal (alternanza ben presente anche all’interno dei singoli, lunghissimi brani), ci accorgiamo con piacere che il songwriting ha compiuto un notevole balzo in avanti, acquisendo complessità e profondità.
La medesima profondità che constatiamo a livello di suoni: altro progresso rispetto al passato, la produzione accorda inatteso spessore alle chitarre, e dona nitore e possanza alla batteria (fra l’altro, tutta farina del sacco del polistrumentista
M.S.).
Così, al termine dei 75 (!) minuti di “
III: Trauma”, dopo aver assorbito le cupe vibrazioni di gioielli come “
Funeral Dreams”, “
Viaticum” e “
Bury Me”, non possiamo che giungere ad una conclusione: gli
Harakiri for the Sky hanno realizzato il loro miglior album sino ad oggi. Con buona pace dei “nostalgici a prescindere”.
L’aspetto più stuzzicante di questo processo di maturazione?
Che vi sono ancora ampi margini di miglioramento: sfrondate alcune prolissità strumentali, rese più efficaci le partiture squisitamente
black metal, aggiunto un pizzico di imprevedibilità (i
Deafheaven insegnano) e il top album sarà bello che servito.
Io, al contrario di
Sick Boy, ci credo eccome.